Tensioni commerciali, earning season e Brexit: il punto sui più recenti avvenimenti economico-finanziari sui mercati con Roberto Rossignoli, Portfolio manager Moneyfarm.
Sorprendono i risultati delle aziende americane, sia per quanto riguarda gli utili, sia per quanto riguarda le vendite.
E alla fine la realtà sembra aver prevalso sulle parole, almeno per il momento. Nonostante i venti di guerra commerciale che soffiano tra le due sponde del Pacifico (con la relativa volatilità che essi hanno portato sui mercati in un agosto tutt’altro che sonnolento), le performance dell’azionario sono state tutto sommato positive nell’ultimo mese. A supportarle sono stati principalmente gli annunci dei risultati economici trimestrali delle società che per il secondo trimestre consecutivo hanno continuato a sorprendere. Se consideriamo i risultati pubblicati fino a venerdì scorso (3 agosto), il profitto delle aziende quotate è cresciuto nel complesso del 23,5%, si tratta di un risultato vicino alla crescita già elevatissima raggiunta nel primo trimestre.
Tuttavia, se si considera nel complesso il risultato, la reazione di prezzo è stata abbastanza timida. Questo vale anche per le società che hanno riportato i risultati migliori (un po’ come era già successo nel primo trimestre).
Come si evince dal grafico (sotto), gli investitori hanno reagito alle trimestrali in modo relativamente indipendente rispetto al livello di sorpresa riportato in esse. I mercati non sembrano aver premiato con consistenza i settori che hanno presentato risultati migliori delle aspettative, e se guardiamo anche ad altre geografie e ad altri indicatori, come la sorpresa a livello di ricavi o alla crescita, si nota lo stesso tipo di relazione.
Questo non significa che i mercati stiano ignorando i buoni risultati economici. Anzi. Allargando la visione a orizzonti un po’ più lunghi, si osserva che da inizio anno, a sostenere i corsi azionari sono stati proprio gli utili e le conseguenti earnings revision costantemente riviste al rialzo. Le valutazioni espresse come rapporto del prezzo sugli utili sono calate (il Price/Earning), riflettendo una sensibilità dei mercati rispetto ai numerosi orizzonti di criticità. Non è un caso che nelle aree geografiche dove la revisione al rialzo degli utili non si è verificata, come Europa e Paesi Emergenti, i corsi azionari abbiano sofferto.
Il grafico (sopra) mostra l’andamento del prezzo azionario dell’S&P 500 da inizio anno (+5.7%). La rincorsa si è verificata nonostante un calo delle valutazioni espresse come rapporto tra prezzo e utili (linea rosa, -4%): questo vuol dire che l’aumento dei prezzi azionari è stato principalmente determinato dall’aumento degli utili (linea blu, +10%). Si tratta della prima volta dal 2012 in cui a guidare il rendimento delle azioni americane siano stati gli utili a fronte di un trend negativo dei multipli.
Gli utili continuano a quindi contare, eccome; certo la dinamica della sorpresa positiva ha perso un po’ la capacità di muovere le azioni nel breve periodo, tuttavia impatta positivamente sulle stime, che impattano positivamente sui prezzi nel medio periodo.
Tornando alla stagione attuale, provando a non rimanere abbagliati dal luccichio del numero sensazionale, all’interno del cesto si pesca qualche frutto acerbo, vittima degli ormai arcinoti rischi di stagione. Ha fatto discutere il caso di Us Steel, il primo produttore americano di acciaio, che ha visto il proprio titolo crollare nonostante utili e ricavi sopra le aspettative (a pesare probabilmente un outlook tiepido per la seconda metà dell’anno). Così Facebook che ha visto scendere il valore della propria azione di quasi il 20% nonostante una crescita dei ricavi anno su anno superiore al 30% (causa alcuni commenti del management e un numero di utenti attivi in calo). In generale, le aziende che non hanno saputo tenere testa alle aspettative hanno pagato molto. Questi casi ci ricordano che ci troviamo in un contesto di allerta, con molti operatori nel dubbio, con il dito appoggiato sul pulsante delle vendite, o che comunque provano in modo selettivo a prendere profitto dove possibile.
Di certo tutti sanno che questa situazione non è destinata a durare per sempre e i più pessimisti vedono nel momento estremamente positivo per le aziende a stelle e strisce l’ultimo banchetto prima della inevitabile correzione che potrebbe arrivare già in autunno, magari scatenata da un escalation del confronto commerciale tra Cina ed Europa, magari da un acuirsi delle tensioni nell’Eurozona.
Fermo restando, quindi, un quadro che rimane fortemente incerto, bisogna notare che il ciclo macro e il ciclo delle policy sembrano ancora offrire un sostegno alla performance dell’azionario che resta in linea con le prospettive di inizio anno. Lo scenario non sembra avallare visioni eccessivamente catastrofiste. La riforma fiscale di Trump ha messo le ali alla crescita Usa, ravvivando la dinamica dei salari. L’aumentare degli scambi a livello globale, a cui abbiamo assistito negli ultimi 24 mesi, sembra allontanare nel futuro gli eventuali effetti economici negativi (peraltro affatto certi) delle tensioni commerciali. La dinamica inflazionistica, pur decisamente in accelerazione, garantisce ancora respiro, addolcendo soprattutto in Europa le tempistiche del rialzo dei tassi, il vero pendolo che incombe sul destino dell’azionario americano.
Tuttavia non mancano i fronti di rischio: nonostante il rallentamento della dinamica dei salari (comunque positiva) abbia scongiurato il rischio di un’impennata improvvisa dei prezzi almeno nel brevissimo periodo, gli effetti delle politiche ultra-espansive messe in campo dall’amministrazione Trump potrebbero finire per condizionare la visione della Fed costringendo la banca centrale a un rialzo dei tassi più repentino. Inoltre gli attori politici, soprattutto in Europa, stanno facendo di tutto per aggiungere incertezza a incertezza. Ci troviamo in un momento di transizione economica e molti dei nodi più critici non sembrano essere ancora venuti al pettine. In attesa che torni settembre, però, le notizie che arrivano dagli Usa hanno, almeno nel breve periodo, l’effetto di una ventata fresca per tutti gli investitori e aiutano a guardare l’orizzonte, che rimane comunque pieno di incognite, con più fiducia.
La scadenza del marzo 2019 si avvicina e le possibilità di arrivare a una Brexit senza accordo aumentano. Inoltre il governo britannico sembra estremamente diviso. Questo pessimismo si è trasmesso sulla Sterlina che si è indebolita nei confronti del Dollaro. Anche l’indicatore Risk Reversal, che misura la differenza nella volatilità tra le posizioni Put e le posizioni Call ha girato in negativo, segnalando il pessimismo dei mercati.
A luglio l’amministrazione di Trump ha implementato le prime tariffe su 34 miliardi di dollari di merci importate dalla Cina, la quale ha prontamente risposto con misure analoghe nei confronti degli Stati Uniti. Dopo mesi di annunci, siamo quindi passati dalle parole ai fatti. Le borse non hanno accusato eccessivamente il colpo. Da rilevare resta l’attenzione degli operatori nei confronti dell’argomento. Secondo il BofA Merrill Lynch Fund Global Fund Manager Survey gli operatori globali sono concordi nell’indicare la questione commerciale come il singolo fattore di rischio principale sui mercati finanziari (biggest tail risk). Un consenso del genere non si vedeva dalla crisi dell’Eurozona nel 2011.
Ancora il commercio è stato al centro dell’interesse dei mercati, movimentando le borse di tutto il mondo. Nelle scorse settimane la Casa Bianca è passata dalle parole ai fatti: il primo di giugno Trump ha firmato tariffe commerciali del 25% e del 10% su rispettivamente acciaio e alluminio importati dall’Unione Europea, Canada e Messico. Inoltre il Presidente ha confermato il 6 luglio di voler partire con l’imposizione di ulteriori tariffe su beni importati dalla Cina per un valore di 50 miliardi. Le contromisure non si sono lasciate attendere. Insomma, sembra che effettivamente che il progetto Usa di correggere la politica commerciale stia entrando nel vivo. Le borse hanno reagito in modo nervoso.
Sui giornali si parla spesso di guerra commerciale. Onestamente ci sembra una definizione eccessivamente catastrofista, almeno stando a quanto successo fino ad ora e il termine non sempre viene usato in modo consapevole e coerente: siamo di fronte a una guerra totale o a delle schermaglie commerciali? Siamo di fronte a una correzione delle relazioni commerciali tra alcuni Paesi (e alcuni settori dell’economia) o siamo alle soglie di un nuova fase delle relazioni commerciali, caratterizzata dal protezionismo? Presto per dirlo, ma a nostro avviso si dovrebbe parlare per ora, soprattutto se si riferisce al piano generale del commercio globale, di ‘tensioni’ commerciali piuttosto che di ‘guerra commerciale’.
Fatta questa precisazione, crediamo sia opportuno distinguere il piano economico con quello più legato all’andamento dei listini globali, due piani assolutamente rilevanti e legati, ma che hanno tempi di reazione e orizzonti diversi . Dal punto di vista economico, per ora le indicazioni che riceviamo sono miste. Le misure prese finora coprono solo una parte marginale del commercio mondiale. Per quanto riguarda l’Unione Europea, i dazi imposti su alluminio e acciaio riguardano meno del 3% del totale delle esportazioni verso gli Stati Uniti.
Per ora le misure riguardano le relazioni tra Stati Uniti e Cina, UE e i partner dell’accordo NAFTA (Canada e Messico). Seppur gli Stati Uniti sono e restano l’economia più importante del mondo, il commercio mondiale continua a prosperare anche altrove: nuovi mercati di consumatori continuano a crescere in tutte le geografie. Il loro peso sul commercio degli Stati Uniti si attesta attorno al 12%, in calo rispetto al 18% del mondo pre-crisi economica.
Importante notare che il commercio globale gode di ottima salute, con il volume degli scambi che secondo il Wto ha raggiunto il picco nel 2017 e continua a crescere nel 2018. La maggior parte della crescita è dovuta all’attività asiatica, ma anche i paesi sviluppati hanno fatto registrare volumi in aumento.
L’articolazione delle catene del valore, inoltre, rende difficile prevedere quella che potrebbe essere l’effettiva efficacia delle misure protezionistiche sull’economia: molto ha fatto scalpore la notizie di Harley Davidson di aumentare la propria produzione in Europa in seguito ai dazi annunciati da Trump, denotando quindi una flessibilità globale che aumenta il contenuto di imprevedibilità delle conseguenze di queste tensioni.
Per queste ragioni è molto presto per prevedere quali potranno essere gli effetti di medio termine del nuovo corso sul commercio mondiale. Non è oltraggioso pensare che la Casa Bianca si adoperi per correggere alcuni squilibri macroeconomici, soprattutto riguardo alcune delle distorsioni create dalla globalizzazione che si sono abbattute in maniera sproporzionata, tra gli altri, sul ceto medio manifatturiero dei Paesi occidentali.
Quello su cui riteniamo più giustificate le perplessità verso le mosse del governo statunitense è sicuramente la strategia negoziale e comunicativa adottata, e più in generale l’approccio politico. La sensazione che viene continuamente trasmessa agli operatori economici è che l’amministrazione USA, seppur nella chiarezza degli obiettivi perseguiti (ridurre il deficit commerciale e favorire il ritorno delle aziende negli Stati Uniti), non agisca secondo un piano, ma tramite azioni estemporanee annunciate via Twitter.
Questo non vale solo per il commercio ma anche per altre importanti iniziative politiche come la presunta volontà, ancora non del tutto chiarita dell’amministrazione di mettere in atto dei controlli sugli azionisti cinesi di alcune società americane che operano in settori considerati strategici. Per questo non sorprende che il livello di incertezza riguardo alla situazione commerciale abbia raggiunto i massimi dal 1994. Anche la minaccia non troppo velata di nuove iniziative, in settori importanti come quello dell’automotive, non aiutano a distendere il clima, soprattutto con partner storici come l’Unione Europea, Canada e Messico.
E soprattutto a questo nodo si legano gli sviluppi più di breve termine, legati alle performance delle asset class finanziarie. Già il momento non è dei più distesi, con l’economia globale che dopo un 2017 stellare inizia a crescere al di sotto delle attese, tassi d’interesse in crescita e Banche Centrali ormai leste sulla via verso l’uscita dalla sbornia monetaria dell’ultimo decennio. In questa fase, un po’ di chiarezza non guasterebbe: il quadro generale invita comunque alla cautela.
You can see how this popup was set up in our step-by-step guide: https://wppopupmaker.com/guides/auto-opening-announcement-popups/
You can see how this popup was set up in our step-by-step guide: https://wppopupmaker.com/guides/auto-opening-announcement-popups/