Gli unicorni esistono? Ed in finanza, ci sono? La consueta pillola mensile di cultura finanziaria, a cura di Mario Noera, Docente di economia degli intermediari finanziari presso l’Università Bocconi di Milano.
La teoria economica non si nutre solo di teoremi, ma qualche volta anche di miti. Uno di questi, tra i più resilienti e diffusi, è quello dell’efficienza dei mercati finanziari. Il paradigma ortodosso di questa tesi presuppone che gli investitori siano sempre perfettamente informati e razionali. Talvolta, però, com’è ben noto, i mercati deviano dall’efficienza e si fanno dominare dall’emotività. Le crisi finanziarie, quindi, dipendono dal panico, e le bolle dall’euforia.
Quindi, secondo questa lettura, la bolla delle dot.com ad inizio del 2000 era solo una mania imitativa che spingeva tutti ad investire in qualunque società che nel nome avesse .com. Un fenomeno analogo è evocato anche oggi di fronte a quotazioni di Borsa spesso iperboliche. Non c’era alcuna logica nell’esuberanza irrazionale dei primi anni duemila; non pare essercene neanche oggi nelle quotazioni stellari dei cosiddetti unicorni.
Nel gergo della finanza, sono quelle start-up, che già nei primi anni di vita, ed ancora prima di una quotazione borsistica, hanno una capitalizzazione superiore al miliardo di dollari. Come i discografici con le rock star, gli investitori (in particolar modo i fondi di venture capital e di private equity) sognano di scoprire un unicorno, e di farsi trascinare verso il successo.
Fino a qualche anno fa, gli unicorni non esistevano. Oggi sono oltre 250. Ed hanno spesso nomei famosi, come Uber o Airbnb (Snapchat si è quotato, ndr). Tuttavia, è spesso difficile per gli analisti giustificare quotazioni così elevate sulla base dei profitti realizzati od attesi. Analogamente alla bolla Internet di inizio secolo, le quotazioni degli unicorni di oggi non sembrano rispettare alcuna legge razionale.
Diventa quindi sorprendente la scoperta che queste valutazioni siano tutt’altro che irragionevoli. Rispondono, in verità, ad una razionalità nascosta. Sembra che le quotazioni dei titoli Internet si siano conformate, in realtà, ad un ordine molto preciso: la legge esponenziale. Anche le quotazioni degli unicorni di oggi sembrano ben spiegate dalla medesima legge.
Quest’ultima prevede che “chi è più grande, tende anche a rendere di più”. Molti fenomeni naturali e sociali sono caratterizzati dalla distribuzione esponenziale, per esempio terremoti ed espansione delle città. Essa, però, non si applica, di norma, alla teoria finanziaria tradizionale.
Per quest’ultima, infatti, i rendimenti non dipendono dalla dimensione dei titoli, ma si distribuiscono in modo casuale. La rivoluzione digitale sembra però aver sovvertito le regole del gioco.
Sia per i titoli Internet di inizio 2000 che per gli unicorni di oggi, chi per primo introduce un’innovazione, diventa presto irraggiungibile per la concorrenza. Nel mondo digitale, infatti, l’espansione è governata dalle cosiddette economie di rete, vale a dire da processi che si autoalimentano incessantemente.
Se tutti gli amici utilizzano WhatsApp o Facebook, è molto probabile che lo faccia anche qualcun’altro. E la stessa cosa può, con ogni probabilità, capitare a chiunque in una cerchia di conoscenze, autoalimentando il fenomeno.
Per i vincitori del mondo digitale, le leggi della concorrenza appaiono sospese. Questo mondo tende a digitare monopoli naturali, cioè galline dalle uova d’oro che, ovviamente, valgono molto. I mercati possono anche non essere efficienti, ma di certo non sono stupidi.
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