Rubrica a cura di Mario Noera, Docente di Economia degli intermediari finanziari alla Bocconi. Il rischio, questo sconosciuto, soprattutto in finanza.
La psicologia comportamentale chiama framing, cioè effetto inquadramento, la nostra tendenza a farci condizionare da come le cose ci vengono presentate. Nelle scelte di investimento la misura più comunemente adottata del rischio è ad esempio la volatilità la volatilità. La volatilità è un indicatore statistico, la deviazione standard che misura la variabilità dei rendimenti attorno al rendimento atteso. A prescindere dal suo significato statistico, la volatilità richiama però intuitivamente un senso generico di instabilità dei risultati, e ispira quindi una percezione del rischio che sembra prescindere dagli obiettivi a cui si riferisce.
Il rischio finanziario può però essere anche visto come la probabilità di non riuscire a raggiungere i nostri obiettivi. Di solito è infatti proprio la probabilità, non la volatilità, l’ingrediente chiave dei nostri processi decisionali; è l’idea che ci formiamo della probabilità di un qualunque evento che orienta quasi tutte le nostre scelte. Cerchiamo di chiedere al meteorologo di indicarci le probabilità di pioggia per l’indomani, o al chirurgo quale sia la probabilità di successo di un intervento chirurgico, ma né al meteorologo né al chirurgo chiediamo la deviazione standard dei risultati passati. E’ quindi curioso che il significato probabilistico della nozione di rischio non venga invece quasi mai esplicitato nella comunicazione finanziaria. La ragione non è del tutto banale. La nozione di probabilità acquista infatti significato solo se messa in relazione con obiettivi specifici e con orizzonti temporali ben definiti. La probabilità di pioggia ci interessa per decidere se rimandare la gita prevista per l’indomani a dopodomani; la probabilità di successo ci serve per decidere se ricorrere subito ad un intervento chirurgico, od affidarci a più lunghe terapie alternative.
Appare quindi curioso che il frame mentale in cui vengono collocate le scelte di investimento sia invece diverso da quello che abitualmente adottiamo. Il motivo è che spesso in finanza gli obiettivi sono spesso molto generici, ad esempio il massimo rendimento possibile, e l’orizzonte temporale è di solito molto vago… periodo breve, medio, lungo… e soprattutto gli obiettivi finanziari non sono quasi mai esplicitamente collegati all’utilizzo che si desidera concretamente fare del patrimonio investito.
Eppure è proprio dalla buona gestione del nostro patrimonio che dipendono molti dei nostri progetti, e sarebbe quindi assai ragionevole poter valutare a priori quale sia la probabilità di poterli o non poterli realizzare. Associare probabilità di successo ad obiettivi definiti misurerebbe inoltre non solo la loro sostenibilità, ma anche la nostra effettiva tolleranza al rischio di non riuscire a raggiungerli. Le nostre scelte di investimento sarebbero in questo caso guidate dalla consapevolezza di ciò che possiamo o non possiamo permetterci. Se volessimo davvero a riappropriarci del senso ultimo dei nostri investimenti non dovremmo quindi accontentarci di richiedere al nostro consulente quanto potremmo guadagnare o perdere nei prossimi giorni o mesi, ma dovremmo invece porre domande più circostanziate e precise, come ad esempio quale investimento sarebbe in grado di massimizzare la nostra probabilità di vivere una vecchiaia serena, oppure quale sia la probabilità di riuscire a finanziare gli studi dei nostri figli fra due, tre o cinque anni, e così via.
Nel ricco armamentario della finanza non mancano certo le risposte; spesso invece mancano le domande giuste.
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