Confindustria. Assemblea 2019 – Relazione del Presidente Vincenzo Boccia
Confindustria
La Relazione del Presidente Vincenzo Boccia all’Assemblea Confindustria del 22 maggio 2019, dopo il bellissimo video sul futuro che ha aperto i lavori.
Signor Presidente della Repubblica, Onorevole Presidente del Senato, Onorevole Presidente della Camera, Signor Presidente del Consiglio, Onorevoli Ministri, Autorità, Colleghe, Colleghi, abbiamo voluto iniziare con un video che parla dell’Italia che troverà fra vent’anni un bambino che nasce oggi, 22 maggio 2019. Quell’Italia dipenderà dalle scelte che faremo noi, adesso. Dalle politiche economiche che avremo avviato e dai cambiamenti culturali che tutta la società italiana – istituzioni pubbliche, cittadini, imprese – avrà deciso di promuovere. Recuperando capacità di visione, impegno, sacrificio, coraggio, tempismo, corresponsabilità. Termini come sogno e speranza – ci ha detto nel discorso di fine anno il Presidente Mattarella – non devono restare confinati alla sola stagione dell’infanzia. Ecco, noi vogliamo riprendere a sognare da adulti per riaccendere la speranza e costruire certezze nell’Italia che accoglierà tutti i bambini e le bambine di oggi. Costruendo un percorso guidato dalla visione di quello che l’Italia è, ma che non riesce ancora ad esprimere, e di quello che potrebbe essere se smettesse di rincorrere facili promesse e recuperasse il senso dell’impegno e del sacrificio. Noi siamo i discendenti di quegli uomini e di quelle donne che hanno ricostruito l’Italia e dobbiamo mostrarci all’altezza del loro esempio e del loro insegnamento. In quel video abbiamo voluto mostrare come noi vediamo le cose. Perché, come suggerisce il Talmud, non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo.
Noi vogliamo essere il futuro che immaginiamo. I nostri figli e i nostri nipoti ci giudicheranno per quello che sapremo fare adesso, in questo delicato frangente della vita nazionale, sospesi tra il rischio di un destino declinante e la possibilità di riattivare una piena ripresa in Italia e finanche guidarla in Europa. Un’Europa che sogniamo miglior posto al mondo per i giovani, il lavoro e le imprese. Dobbiamo allora agire. Dobbiamo agire per fermare la fuga dei nostri giovani, in particolare i 65 mila che ogni anno lasciano il Mezzogiorno, un terzo dei quali laureati, svuotando di energie e intelligenze un territorio che nella nostra visione può e deve diventare un motore potente della ripresa nazionale. Di un Paese che deve restare unito e compatto, anche grazie a un reticolato di imprese che, senza soluzione di continuità, caratterizzerà da Nord a Sud l’intero Stivale. Tra 20 anni l’Italia che immaginiamo e che vogliamo dovrà essere in piena occupazione. Si partirà senza il vincolo della necessità. E si ritornerà per opportunità e non per nostalgia. Dobbiamo agire perché il reddito pro capite degli italiani – oggi del 14 per cento inferiore alla media dell’Eurozona – torni a primeggiare com’era all’inizio degli anni 2000.
Dobbiamo agire affinché le scelte prese oggi facciano dell’Italia un faro dell’innovazione, con fabbriche intelligenti e infrastrutture immateriali diffuse. Il 20 per cento di imprese internazionalizzate, digitali, pienamente competitive e integrate, di cui oggi disponiamo, salirà a una percentuale dell’80, perché a quel 20 si aggiungerà il 60 per cento delle imprese oggi in fase di transizione. Il Made in Italy, che ha reso l’Italia grande e conosciuta nel mondo, continuerà così a contaminare i gusti di nuove generazioni di consumatori. E quando entrano in gioco gusto, armonia, bellezza, equilibrio, design, tecnologia, entra in gioco l’Italia.
Dobbiamo agire per trasformare l’Italia nello snodo d’Europa per i grandi flussi commerciali, sfruttando la sua posizione geografica, le infrastrutture e il capitale umano di cui sarà dotata. Non un’Italia periferia d’Europa, ma un’Italia centrale tra Europa e Mediterraneo, aperta a Est e a Ovest. Dobbiamo agire perché l’Italia diventi ancor più un modello di sostenibilità: dei tanti boschi verticali, dei siti ormai bonificati in un’ottica di reindustrializzazione, dell’energia nuova e rinnovabile. Dobbiamo agire in modo che per allora tutti ci sentiremo cittadini europei di nazionalità italiana grazie allo scambio continuo e diffuso di idee ed esperienze con i popoli d’Europa. Dobbiamo e vogliamo agire perché crediamo in questa Italia. Lasciando da parte i tatticismi e invitando la politica italiana ed europea ad allungare e allargare lo sguardo. Insieme dobbiamo condividere quale Italia ed Europa immaginiamo tra 3, 5, 20 anni.
Noi siamo mossi dalla visione di un Paese migliore, da costruire con il coraggio delle scelte di oggi. E dalla consapevolezza che possiamo farcela anche grazie ai tanti punti di forza di un’industria larga: manifatturiera, delle costruzioni, dei servizi, della cultura, del turismo. Siamo uno dei pochi paesi al mondo che sa fare tutto, produce tutto: possiamo vantare una manifattura – seconda in Europa e settima al mondo per valore aggiunto – con l’offerta tra le più diversificate, che si posiziona, da almeno un decennio, tra i migliori esportatori, dove l’andamento della produttività, se letto con la dovuta attenzione, restituisce un quadro meno pessimista di quanto non venga comunemente dipinto. Le statistiche ci dicono, anche, che l’industria italiana è la più virtuosa d’Europa, superando quella tedesca quanto a minor utilizzo di input energetici, minor impiego di materia, minore intensità di emissioni di Co2, minore produzione di rifiuti e loro maggior recupero. Siamo campioni dell’economia circolare. Per l’industria italiana la sostenibilità è un fattore di competitività: le imprese sono un alleato strategico per vincere le sfide ambientali e sociali sia in Italia che in Europa.
Naturalmente non basta. Il nostro impegno è quotidiano perché nelle nostre imprese ci siano più competenze e più capitali esterni, più propensione al rischio. Creiamo le condizioni per un grande piano di inclusione giovani che offra loro possibilità di crescita professionale adeguata alle competenze. Queste competenze vanno però costruite: è grave che in un Paese manifatturiero come l’Italia, dove ancora è alta la distanza tra domanda e offerta di lavoro, gli Istituti Tecnici Superiori non siano sufficientemente promossi e finanziati. Se la Germania forma 800 mila tecnici l’anno e noi 10 mila, non saremo mai quel Paese che immaginiamo tra 20 anni. E l’università è sparita totalmente dal dibattito pubblico, come se questo non riguardasse la crescita e la tenuta economico-sociale del Paese.
Coscienti dei nostri punti di forza, nel 2016 abbiamo rilanciato la politica dei fattori per dire che non esistono settori di successo da premiare a scapito di altri, ma solo imprese innovative in settori tradizionali e non. Quello che rileva è la capacità e la visione dell’imprenditore e della sua squadra di collaboratori, professionisti e lavoratori. Una sana politica deve fornire a tutti – di qualsiasi dimensione e settore e in ogni parte del Paese – gli strumenti giusti per competere. Dalla politica dei fattori ci siamo mossi verso la politica dei fini, che abbiamo sintetizzato nel documento presentato a febbraio dello scorso anno alle Assise di Verona. Più lavoro, più crescita e meno debito pubblico restano gli obiettivi che una sana politica economica deve saper perseguire. Con gli ultimi due, più crescita e meno debito, come precondizioni per raggiungere il primo: più lavoro, a partire dai giovani, la vera priorità nazionale ed europea.
Con Cgil, Cisl e Uil attraverso il Patto per la Fabbrica ci siamo impegnati per una concezione moderna delle relazioni industriali che vorremmo attuata in tutti i suoi aspetti. Lo abbiamo fatto individuando punti di convergenza su cui è possibile fare fronte comune. A partire dalla necessità di ridurre il carico fiscale a vantaggio dei lavoratori per aumentare i salari, migliorare il potere d’acquisto e stimolare per questa via la domanda interna oggi particolarmente depressa. Sappiamo bene che tasse e contributi fanno più che raddoppiare il costo del lavoro per l’impresa rispetto a quanto il lavoratore percepisce. In un momento delicato per la vita del Paese le parti sociali si sono unite e non divise. Così come in occasione dell’Appello comune per l’Europa.
Il 3 dicembre dello scorso anno a Torino con altre dieci organizzazioni imprenditoriali in rappresentanza di oltre tre milioni d’imprese – che ringraziamo per la continua collaborazione e condivisione di visioni e valori – ci siamo riuniti per ribadire ad alta voce tre Sì: alla Tav, alle infrastrutture, alla crescita. Perché un Paese che non si collega alle grandi reti infrastrutturali europee e mondiali ipoteca il suo futuro e condanna i suoi cittadini all’isolamento. Abbiamo segnalato l’urgenza di riaprire i cantieri e avviare una grande stagione d’investimenti pubblici. Abbiamo detto chiaramente che aumentare il deficit per la spesa corrente – non per gli investimenti – e, di conseguenza, aggravare il debito pubblico, è l’esatto opposto di quello che serve al Paese.
Abbiamo fatto presente che andava evitata a tutti i costi la procedura d’infrazione su deficit e debito. Procedura, che era – e continua a essere – contraria all’interesse nazionale. Abbiamo fortemente criticato alcune misure, a partire dall’eco-bonus, ma allo stesso tempo costruito un percorso elaborando una strategia di rilancio dell’automotive e della sua filiera, che nei prossimi giorni metteremo a disposizione del Governo. Abbiamo chiesto interventi urgenti per la crescita. Oggi su Decreto Crescita e Sblocca cantieri diciamo che siamo sulla strada giusta. Abbiamo compreso tutti che la questione sociale e la questione economica e della crescita vanno affrontate insieme, che non c’è un tempo per l’una e un tempo per l’altra, ma che la crescita diventa lo strumento per la riduzione e l’eliminazione dei divari tra persone e tra territori. Non mancano debolezze, contraddizioni e il consueto rinvio a una molteplicità di provvedimenti attuativi. È presto ancora per valutare quanto potranno essere efficaci e influire sull’aumento del Pil. Ma sono primi segnali positivi, che sembrano superare una visione pregiudiziale verso l’attività di impresa. Abbiamo svolto e continueremo a svolgere il nostro ruolo di attore sociale – ponte tra gli interessi delle imprese e gli interessi del Paese – con coerenza e chiarezza, di pensiero e di proposta.
E oggi diciamo: a chi accetta il dialogo, il confronto, e riconosce il valore dei corpi intermedi, assicuriamo che può contare su Confindustria nella ricerca delle soluzioni, senza per questo dover rinunciare ognuno alla propria autonomia. Le nostre idee sono solide, radicate, trasparenti. Se gli attori della politica convergono, noi lo riconosciamo. Quando se ne allontanano, lo sottolineiamo. Perché non siamo né maggioranza, né opposizione. Né popolari, né socialisti o populisti. Siamo Italiani, siamo imprenditori, siamo Confindustria.
L’oggi è complesso: servono visione e coraggio. Serve sfuggire alla trappola dei tatticismi. La politica deve riappropriarsi del suo primato, restituire sogno e visione, darsi grandi obiettivi e approntare strumenti e risorse per raggiungerli. Valutando gli effetti delle decisioni e correggendo la rotta se necessario. Senza stancarsi di ricercare le soluzioni migliori, perché è di queste che i cittadini hanno bisogno. Occorre smettere di dividersi su promesse che non si possono mantenere e concentrarci tutti sulle cose da fare. Che sono tante e impegnative. Ci sono turbolenze e incertezze sul fronte internazionale che non aiutano a fare scelte di investimento di lungo periodo. Il rallentamento dell’economia dell’Eurozona, in particolare, non ci sta favorendo. La frenata della Germania, il nostro primo mercato di sbocco, ha un impatto diretto e rilevante per molti settori e territori. Guardando ad esempio alle tre grandi regioni del nord – Veneto, Lombardia e Piemonte – circa il 25 per cento del valore aggiunto manifatturiero è esportato in Germania: un bene su quattro di quelli prodotti. È evidente che non possiamo gioire di un rallentamento tedesco, anzi. La politica commerciale americana ha determinato nel 2018 un calo degli scambi internazionali e rischia di segnare negativamente anche questo 2019. Ma la politica americana sta altresì mettendo in discussione l’alleanza transatlantica con l’Europa, che ha guidato il mondo negli ultimi 70 anni e che, anche attraverso la Nato, ha garantito sicurezza e significato democrazia e libertà. Per noi questa alleanza è irrinunciabile.
Ci sono poi le incertezze legate ad alcuni grandi paesi emergenti, come la Turchia e l’Argentina, e le tensioni che si stanno addensando intorno al Venezuela. Tutto questo si inserisce in un contesto di crescita piatta: a fine marzo abbiamo parlato di “crescita zero”; pochi giorni dopo il Governo ha di fatto confermato la previsione, ponendo la crescita allo 0,2 per cento. La Commissione Europea stima lo 0,1. Nessuno può sapere con certezza quale sarà la vera crescita quest’anno, per le tante variabili che condizionano oggi questo tipo di analisi. Ma la tendenza è chiara: il Paese non riparte con lo slancio dovuto, necessario, che è alla nostra portata, che ci meritiamo. Per rimetterci a correre sarà utile liberarci dal peso di parole che inducono alla sfiducia, che evocano negatività, che peggiorano il clima. Le parole di chi governa non sono mai neutre: influenzano le decisioni di investitori, imprenditori, famiglie. Le parole che producono sfiducia sono contro l’interesse nazionale.
L’Europa rimane la solida base su cui costruire il futuro. Un’Europa delle riforme per il lavoro e per la crescita. Che restituisca valore alle tre P di Pace, Protezione e Prosperità. Serve una politica dei fini. Per un’Europa luogo ideale per i giovani e il lavoro, che punti alla piena occupazione, che metta al centro l’attività d’impresa, attraverso investimenti sulla competitività e su una massiccia dotazione infrastrutturale transnazionale. Se condividiamo questi obiettivi occorre cambiare paradigma di pensiero, individuare le misure necessarie, le risorse e poi intervenire sui saldi di bilancio. E non, invece, intervenire sui saldi prescindendo dagli effetti sull’economia reale. Questo vuol dire trasformare il Patto di Stabilità e Crescita in Patto di Crescita e Stabilità. Perché solo attraverso la crescita è possibile garantire stabilità. Questa è la politica dei fini che Confindustria pone all’attenzione delle forze politiche e dei Governi d’Europa. Senza dimenticare i benefici che l’Unione ci ha garantito in 70 anni di Comunità economica, 25 di mercato unico, 20 di moneta unica. Tutti ricordiamo l’inflazione e i tassi d’interesse a due cifre, la necessità di svalutare periodicamente il cambio facendo perdere alle famiglie potere d’acquisto, il debito pubblico raddoppiato in 10 anni. L’Europa e l’euro hanno confinato questi fatti ai libri di storia. E ci hanno permesso di risparmiare almeno 500 miliardi di euro d’interessi sul debito tra il 2000 e il 2018. Un ammontare di denaro enorme.
La moneta unica ha creato una forte interdipendenza tra i Paesi europei. Un’interdipendenza che è politica ed economica. Un dato di fatto che non possiamo dimenticare. A meno di non fare come gli inglesi che, invece di governare questa interdipendenza, dopo 45 anni hanno deciso di lasciare la casa comune. Scoprendo che la realtà è ben diversa da quella immaginata. Tra pochi giorni si voterà per il rinnovo del Parlamento Europeo, cui farà seguito la nomina della nuova Commissione e l’assunzione di altre decisioni rilevanti, come la scelta del Presidente della Banca Centrale, che ha svolto e continua a svolgere un ruolo fondamentale. Si tratta di elezioni importanti perché nel prossimo quinquennio si definirà la strada da imboccare: se si andrà verso il consolidamento dell’interdipendenza tra gli Stati o si svolterà verso il rafforzamento dei nazionalismi. Per noi la via è una sola: un’Europa più coesa e forte che possa competere alla pari con giganti come Cina e Stati Uniti. Perché la competizione non è più tra Paesi d’Europa, ma tra l’Europa e il mondo esterno. Come pensiamo, altrimenti, che un Paese di 60 milioni di abitanti possa da solo confrontarsi con chi di abitanti ne ha più di un miliardo? Se qualcuno pensa il contrario deve dimostrare che esiste un modo credibile di difendere l’interesse nazionale italiano in un contesto diverso.
E il nostro interesse nazionale oggi sta nel contrastare la persistente mancanza di lavoro, le emigrazioni dei nostri giovani, l’immigrazione non controllata, i divari. Dobbiamo farlo nell’unico modo possibile: in Europa e con l’Europa. La gestione di queste sfide è legata alle alleanze che sapremo costruire con chi condivide il nostro riformismo e la nostra idea di Europa: perché la complessità non si governa da soli e il lavoro non si crea isolandoci. I nostri alleati naturali sono la Germania e la Francia, le principali manifatture d’Europa assieme all’Italia. Con le rispettive organizzazioni imprenditoriali, Bdi e Medef, abbiamo intrapreso da tempo un percorso comune per recuperare il senso della questione industriale nei singoli Paesi e in seno all’Unione, nella consapevolezza che l’industria è la soluzione ai problemi e che su questo sia indispensabile trovare una piattaforma politica condivisa che superi le differenze tra i partiti e rimetta la politica industriale al centro dell’agenda europea. Ci aspettiamo che i nostri parlamentari europei e il Governo italiano lavorino allo stesso modo, in un clima di reciprocità e leale collaborazione con francesi e tedeschi.
Per essere attivi e svolgere il ruolo che ci spetta in Europa, il Governo italiano deve saper proporre e ottenere un Commissario con una delega qualificata in campo economico: al Commercio, all’Industria, al Mercato Interno, agli Affari Economici, alla Concorrenza. Altrettanto importante sarà il lavoro che si riuscirà a compiere per far crescere i tanti bravi funzionari italiani presenti nelle istituzioni comunitarie. Dalle loro mani passano dossier rilevanti per l’economia europea e nazionale. Serve una strategia.
Di una Europa forte e coesa abbiamo, inoltre, bisogno per gestire le sfide dell’immigrazione. La conformazione geografica del Continente rende impossibile immaginare di fermare gli arrivi: ci sono 68 mila chilometri di coste nell’Unione Europea, il triplo degli Stati Uniti. I confini esterni sono condivisi da 24 stati su 28. L’Africa, che oggi ha 1,2 miliardi di abitanti, ne avrà il doppio tra 30 anni. Davvero pensiamo che la soluzione sia chiudere le frontiere? Noi no. La soluzione passa da una gestione condivisa, ma anche dal contributo che le nostre imprese possono dare. II Forum sull’Economia Sostenibile che si è tenuto a San Patrignano il 4 e 5 aprile scorsi ha fornito l’occasione per sviluppare una proposta tutta italiana volta alla realizzazione di progetti di partenariato tra privati e di inclusione attiva dei migranti. Un modello per lo sviluppo dell’Africa che possiamo esportare in Europa: per fare in modo che chi arriva oggi in Europa possa contribuire, come hanno fatto i milioni di nostri emigrati nel mondo, alla crescita e al benessere dei nostri Paesi.
Un’osservazione a sé merita il caso della Libia. A pochi chilometri dall’Italia, si sta consumando l’ennesima guerra tra fazioni. E l’Europa si presenta divisa. La debolezza dell’Italia, da una parte, e la disinvoltura di qualche partner europeo, dall’altra, presenteranno presto il conto che per noi sarà salato con i flussi di migranti che inizieranno ad arrivare con l’estate. È essenziale che l’Europa cresca e progredisca in politica estera, iniziando dalle vicende a noi più vicine: parlare con una voce sola alle fazioni libiche metterebbe alle strette i contendenti costringendoli a un accordo. La divisione dell’Europa alimenta la divisione della Libia.
Si pensa erroneamente che gli italiani vogliano meno Europa e preferiscano il ritorno alla lira. Poi scopriamo che due italiani su tre apprezzano l’euro e l’Europa. E la desiderano più attiva sulla crescita, sullo sviluppo economico, sulla lotta alla disoccupazione giovanile. Nei prossimi cinque anni dovremo assicurare risposte adeguate ai bisogni espressi di più crescita e più lavoro. Di meno disuguaglianze e più equità. La risposta sta negli investimenti. Dobbiamo recuperare il gap accumulato negli anni della crisi. Torniamo allora a insistere su una grande dotazione finanziaria, con titoli di scopo per investire in reti infrastrutturali, in centri di ricerca e università paneuropee, in innovazione. Apriamo un dibattito sullo scorporo temporaneo e straordinario degli investimenti pubblici dal Patto di Stabilità e Crescita. Le infrastrutture sono parte di un’idea di Società, collegano periferie a centri e il nostro Paese al mondo, includono persone e territori, attivano lavoro grazie all’apertura dei cantieri.
Le infrastrutture sono parte della precondizione per la crescita. E lo è il rafforzamento del mercato unico dell’energia, dei capitali, del digitale e il completamento dell’Unione bancaria. In Europa c’è una diffusa catena regionale del valore dove le merci passano più volte i confini dei diversi stati nazionali fino a diventare un bene finito. È sempre più difficile distinguere all’interno della filiera industriale un prodotto fatto in Germania, in Italia o in Francia. Se non spingiamo ulteriormente verso questa integrazione, il rischio sarà di diventare marginali e il prodotto italiano difficilmente potrà competere da solo con quello asiatico o americano. Il completamento del mercato unico per l’Italia è cruciale. Così come l’apertura di nuovi mercati fuori dall’Unione. Gli accordi di libero scambio firmati negli ultimi anni hanno portato grandi benefici al nostro Paese, aumentando l’export delle imprese italiane. Proseguiamo in questa direzione, ma allo stesso tempo puntiamo a rafforzare la reciprocità di trattamento verso quei Paesi che non assicurano alle nostre imprese parità di accesso ai mercati e uguali standard produttivi.
Signor Presidente del Consiglio, ci renda protagonisti da italiani della più grande stagione riformista europea. Il nostro Paese viene descritto come guidato da euroscettici o antieuropei. Chieda più Europa, ma migliore. Chieda un’Europa più forte in politica estera, più coraggiosa in politica economica, più solidale nelle politiche migratorie. Chieda un’Europa più unita. Facciamo nostre le parole di Papa Francesco, che qualche settimana fa ha richiamato l’esigenza di un’Europa che non si trinceri nelle divisioni, ma generi azioni in grado di promuovere nuovi dinamismi nella società. Confindustria vuole offrire il suo contributo per edificare un’Europa “capace di essere ancora madre, che abbia vita e che difenda la vita”, per ripetere le parole del Santo Padre nel suo discorso al Parlamento Europeo. Per realizzare, insieme, un nuovo umanesimo europeo.
C’è poi una questione tutta italiana che si intreccia con il voto europeo. Dobbiamo dirci con franchezza che non ci sono scelte semplici o indolori con la prossima legge di bilancio. Se l’Italia volesse rispettare alla lettera le regole europee previste dal Patto di Stabilità e Crescita, dovrebbe fare una manovra strutturale per il 2020 da almeno 32 miliardi di euro: una manovra imponente, con effetti recessivi. Non è ancora chiaro come evitare l’aumento dell’Iva e introdurre la flat tax, come afferma di voler fare il Governo. Dobbiamo attirare l’attenzione sullo stato del debito pubblico che non è migliorato neanche nei recenti anni buoni della crescita. Servono responsabilità e ragionevolezza. È necessario individuare un mix di interventi che riduca deficit e debito rassicurando i mercati finanziari senza compromettere la crescita. Farlo è cruciale: se il rendimento dei titoli di Stato italiani si abbassasse al livello di quelli spagnoli (circa 150 punti base in meno) già il prossimo anno si potrebbero risparmiare 5 miliardi di euro in spesa per interessi. Se la crescita raggiungesse il livello francese, ecco che il debito pubblico scenderebbe automaticamente. Tassi spagnoli e crescita francese sono obiettivi a portata di mano per la prossima Manovra di bilancio.
Costruiamo insieme un piano triennale – credibile e ambizioso allo stesso tempo – che ci permetta di trattare con i partner europei un aggiustamento graduale, serio e strutturale, affiancato a misure per sostenere la difficile fase congiunturale. Affrontiamo in modo non ideologico il nodo risorse, mettiamo il debito pubblico su un sentiero discendente e la crescita su un sentiero ascendente. La politica deve raccogliere la sfida per il nostro futuro. Oggi, ora, subito. Per gettare le fondamenta del mondo che verrà, nella consapevolezza che un progetto di vita ha bisogno di decisioni capaci d’incidere a lungo e nel profondo nel corpo della società, anche se al momento possono risultare impopolari. Ma la bulimia di consenso immediato affida ai social la ricerca di una popolarità che si misura in termini di like. E il presentismo imperante è una malattia molto grave perché impedisce di vedere oltre il finire del giorno. La superficialità si fa regola. Noi invece abbiamo bisogno di studiare, progettare, costruire. Se nel 1995 non si avesse avuto il coraggio di una radicale riforma delle pensioni, dove sarebbe oggi il debito pubblico italiano? Se Carlo Azeglio Ciampi non avesse tenacemente insistito per l’adesione all’euro, che tassi di interesse pagheremmo oggi sui nostri mutui e sui titoli di Stato? Se nel giugno del 1947, ad Harvard, l’allora Segretario di Stato degli Stati Uniti Marshall non avesse pronunciato il famoso discorso che diede vita al piano di aiuti all’Europa, avremmo mai assistito al boom economico degli anni ’60?
Per questo oggi Confindustria propone al Governo del Paese e alle opposizioni di collaborare tutti insieme per impostare una politica economica basata su realismo e pragmatismo, guidata dalla visione. Pragmatismo nelle scelte – non ideologiche, ma di buon senso – e visione prospettica. Possiamo evitare un autunno freddissimo per la nostra economia se costruiamo un programma serrato che faccia radicalmente mutare la percezione sull’immobilità dell’Italia e che ci permetta di affrontare il confronto con i partner europei sul bilancio e sul debito da pari a pari, forti di un progetto credibile e concreto. Un progetto che sia un vero e proprio atto di generosità da dedicare ai ragazzi che vogliono e hanno diritto di vivere e lavorare in Italia per il futuro di tutti noi.
Di fronte a tanti specialisti di profezie negative vogliamo essere portatori di una profezia positiva, che si realizzi per la responsabilità e il protagonismo di tutti noi. Impegnandoci perché le cose accadano. È nello spirito di noi imprenditori e vorremmo condividerlo con chi ci sta. In una società moderna e complessa, né Governo, né imprese sono autosufficienti. Da soli possiamo fare tanto, ma da soli non ce la faremo. Tutti abbiamo bisogno della collaborazione degli altri: la politica delle imprese e le imprese della politica, se davvero vogliamo uscire dalle nostre assemblee con la convinzione che possiamo trasformare le parole in fatti. Puntiamo con decisione alla riduzione del costo del lavoro, focalizzando le risorse sull’occupazione a tempo indeterminato. Variamo un piano shock per grandi infrastrutture e piccole opere destinate a mettere in sicurezza suolo, ponti, scuole e ammodernare strade. Con modalità di erogazione snelle e tempi rapidi. Poniamoci l’obiettivo di raddoppiare in tre anni il numero degli ITS. Apriamo la Pubblica Amministrazione iniziando a valorizzare i nostri talenti, con un piano straordinario di 10 mila assunzioni di giovani qualificati. Più ingegneri, economisti, architetti, geologi. Questo, ne siamo certi, aiuterebbe l’efficacia delle decisioni pubbliche e, quindi, chi produce. Tagliamo i tempi della giustizia, investendo sulle persone, sulle tecnologie, sull’organizzazione.
Presentiamoci come un Paese dotato di regole e procedure chiare, che non rimette continuamente in discussione le decisioni prese. Scriviamo meno leggi, monitoriamone gli effetti, valutiamo l’impatto e poi correggiamo le criticità. Lavoriamo con Cassa Depositi e Prestiti per consentire alle Pubbliche Amministrazioni di pagare i debiti verso le imprese: il ritardo è inaccettabile e provoca sofferenze che non hanno nulla a che vedere con i rischi tipici del mercato. Avviamo una spending review di legislatura con meccanismi premiali per i funzionari che generano efficienza. Una spending review non destinata solo a operare tagli e a reperire risorse, ma a migliorare la qualità della spesa. Ragioniamo su una maggiore compartecipazione alla spesa pubblica per le classi più abbienti, partendo da sanità, università e trasporto pubblico locale, per finanziare una generale riduzione del carico fiscale.
Valorizziamo gli asset di cui dispongono le regioni e gli enti locali, creando degli strumenti finanziari attraverso i quali i cittadini del territorio investano in progetti garantiti dagli immobili degli enti. Sviluppiamo un meccanismo automatico per utilizzare le risorse non spese per la coesione, a favore delle imprese del territorio che investano. E rendiamo strutturale il credito imposta per gli investimenti al Sud. Eliminiamo il dumping contrattuale con una legge sulla rappresentanza per individuare con certezza quale sia il contratto collettivo da prendere a riferimento per la retribuzione giusta. Per le imprese che applicano un contratto collettivo nazionale di riferimento prevediamo la detassazione e la decontribuzione totale dei premi di risultato stipulati dalla contrattazione aziendale. Creiamo meccanismi ancora più efficaci di contrasto all’evasione fiscale, incentivando l’uso della moneta elettronica. Facciamo dell’autonomia differenziata una leva di competitività ed efficienza, oltre che di valorizzazione delle peculiarità regionali, salvaguardando la visione unitaria e l’interesse nazionale su questioni strategiche per l’economia, come l’energia o le infrastrutture. Ma anche le esigenze di solidarietà e perequazione tra territori, a garanzia del principio di uguaglianza. Accettiamo la sfida della sostenibilità, investendo ancora di più sull’economia circolare e sull’efficienza energetica, mobilitando risorse pubbliche e private e puntando su una tassazione premiale a sostegno di questi investimenti. Per realizzare una crescita soddisfacente, servono politiche economiche decise, coerenti e lungimiranti. E, soprattutto, serve continuità di azione e il rispetto di un fattore troppe volte ignorato e invece cruciale: il tempo di realizzazione delle cose che decidiamo di fare.
Karl Popper diceva: “Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”. Nelle nostre proposte c’è una chiara idea di Società italiana ed europea del futuro. Un’idea possibile di Società inclusiva, solidale, moderna. Che vuole collegare persone e territori, azzerare i divari, rafforzare la coesione sociale. E ridare centralità al lavoro, fondamento costituzionale della nostra Repubblica e garanzia di libertà e democrazia. Ripartendo dal Patto di Angelo Costa e Giuseppe Di Vittorio, che già ai tempi della ricostruzione post-bellica avevano ben compreso che per creare lavoro, prima delle case, bisognava costruire le fabbriche. La certezza del futuro aveva mosso quella generazione.
La certezza del futuro deve muovere noi oggi, perché quel bambino che abbiamo visto nel filmato iniziale, che diventerà ragazzo e poi uomo, sia grato alla nostra generazione. Mostriamoci all’altezza del cambiamento che vogliamo. Un cambiamento che deve avvenire in meglio, recuperando lo spirito riformista che ha fatto grandi l’Italia e l’Europa. Le soluzioni ci sono. Vanno individuate e portate a sintesi per costruire un programma di medio termine con il quale gestire un aggiustamento parziale dei conti e venir premiati dai mercati. Abbasseremo lo spread e rilanceremo la crescita. Non dobbiamo nasconderci i problemi, ma neppure cavalcare le ansie. L’ansia paralizza il pensiero e l’azione, mentre abbiamo un grande bisogno di metterci al lavoro per costruire il futuro, quel futuro che abbiamo sognato, immaginato e visto nel nostro video iniziale, fatto di passione per il lavoro e amore per il Paese, quel futuro della nostra Italia: ”Repubblica fondata sul lavoro”, con persone al centro della Società e imprese al centro dell’economia, recuperando senso e spirito di comunità, ritornando ad agire. Quel futuro che si legge nei nostri occhi, che è dentro di noi e che vedremo solo domani.
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