Il valore monetario della vita. Rubrica a cura di Mario Noera, Docente di Economia degli intermediari finanziari alla Bocconi, per ANIMA Sgr.
Ormai quasi ogni atto della nostra vita lascia una traccia digitale. La spesa con la carta di credito, la tessera fedeltà del supermercato, l’organizzazione online dei nostri viaggi, i commenti fatti su Facebook, con la ricerca di parole su Google. Con l’esplosione dei social network, in ogni istante milioni di persone scelgono poi di condividere quasi tutto della loro vita privata: foto, amicizia, passione, amori, e lo condividono in modo del tutto gratuito. Però gli oltre 5 trilioni di byte di informazione raccolti ogni giorno dalle grandi piattaforme internet hanno un valore di mercato enorme. Facebook, Google, Instagram, Twitter, le altre piattaforme di social network derivano infatti i loro profitti iperbolici non tanto dai servizi che forniscono agli utenti, che sono apparentemente gratuiti, quanto dalle informazioni che gli utenti in cambio affidano loro sulle proprie preferenze, sui propri gusti, sui propri comportamenti, sui luoghi frequentati, sulle proprie amicizie e così via. Una volta divenuta accessibile, la vita privata delle persone, cioè, è diventata una vera e propria miniera d’oro.
L’aggregazione dei dati alimenta infatti una lunga e molto remunerativa catena di servizi di marketing. Il nostro profilo viene scandagliato, smontato, riaggregato, poi rivenduto a chiunque voglia proporci o venderci qualcosa. La lunga scia di informazioni che disseminiamo nel nostro corso, nel nostro cammino durante la giornata, viene infatti commercializzata e circola a nostra insaputa sul grande mercato dei dati. I nostri gusti e le nostre abitudini, o anche solo la nostra identità anagrafica hanno, cioè, ormai acquisito un prezzo di mercato, come qualunque altra merce. Oggi ognuno di noi produce, cioè, valore, e non solo lavorando, ma anche semplicemente vivendo. Tuttavia, pur rimanendo apparentemente padroni della nostra vita e responsabili delle nostre scelte, non ci appropriamo per nulla del valore monetario generato dalle informazioni digitali che produciamo. Di questo valore siamo infatti interamente espropriati, lo cediamo ingenuamente, gratuitamente, in cambio di qualche servizio e di un po’ di visibilità.
Di questo paradosso si è occupata nel 2015 la Commissione Europea, che ha varato una nuova normativa a protezione della nostra privacy, chiamata General Data Protection Regulation, o GDPR, entrata in vigore in italia nel 2018, la GDPR restituisce la piena proprietà legale di tutti i dati che ci riguardano. Non solo nessuno può utilizzarli senza il nostro consenso, ma possiamo anche deciderne la loro cosiddetta portabilità. Portabilità dei nostri dati significa che possiamo farceli restituire da chi li ha originariamente raccolti: supermercati, banche, piattaforme internet, social network, ed a nostro piacimento possiamo concederne l’utilizzo esclusivo ad altri operatori di nostra scelta, magari in cambio di una remunerazione monetaria.
Benché ancora poco percepiti dal grande pubblico, gli effetti della portabilità dei dati possono essere davvero dirompenti. La portabilità consente, infatti, a ciascuno di noi di riappropriarsi del valore commerciale delle informazioni che, vivendo, produciamo. Ovviamente, affinché le informazioni possano acquistare una forma monetaria spendibile, è necessario che qualcuno le recuperi per nostro conto dalle decine di operatori a cui le abbiamo inconsapevolmente regalate, ed è anche necessario che qualcuno più esperto ed attrezzato di noi le offra per nostro conto al migliore offerente, in cambio di una remunerazione.
Sull’onda della nuova normativa europea, sta così nascendo anche una nuova generazione di intermediari digitali, come ad esempio Wibsom, Citizen.Me, People.io o Weople, che invece di raccogliere il nostro denaro e di investirlo come fanno usualmente le banche di fondi comuni, raccolgono ed investono per nostro conto e sul nostro mandato, non il nostro denaro, ma i nostri dati personali al fine di farli fruttare e di restituircene il valore. Nel prossimo futuro sarà, cioè, probabilmente normale avere, oltre al conto corrente presso la nostra banca di fiducia, anche un
deposito di dati personali amministrato e gestito da una banca specializzata nel renderli fruttiferi per noi.
Nel 1925 la scrittrice americana (inglese, ndr.) Virginia Woolf aveva scritto che noi abbiamo una vita privata e la consideriamo il più prezioso dei nostri beni, intendendo che vi sono aspetti della nostra vita che per noi non hanno prezzo, e che non desideriamo condividere. Nella nuova era dell’informazione, invece, è proprio la condivisione del nostro tempo libero a produrre valore di mercato. Per la prima volta nella storia la nostra stessa vita privata è, cioè, diventata il più prezioso dei nostri beni, anche in senso strettamente commerciale.
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