Rubrica a cura di Mario Noera, Docente di Economia degli intermediari finanziari. Asset management del capitale umano. Che cos’è?
In uno dei suoi romanzi, come sempre molto provocatori e immaginifici, José Saramago racconta la storia di un paese in cui tutto ad un tratto la popolazione smette improvvisamente di morire. Ovviamente la novità è accolta con grande euforia dalla gente, ma poi con il tempo esplodono problemi sconvolgenti.
La sfida della longevità non sta ovviamente solo nell’immaginazione di uno scrittore. In meno di duecento anni nel mondo occidentale l’aspettativa media di sopravvivenza infatti è quasi raddoppiata, passando dai circa 45 anni della metà dell’ottocento agli 85 anni dei nostri giorni. E uno studio dell’istituto demografico Max Planck attesta addirittura che metà dei bimbi che nascono oggi ha la prospettiva di vivere ben oltre i 100 anni di età. Livelli di
longevità che sono oggi considerati rari ed eccezionali diventeranno cioè assolutamente normali, come nel paese
immaginario di Saramago.
Questo fatto da solo impone cambiamenti radicali non soltanto nell’organizzazione sociale, ma anche mutamenti profondi nel modo di vivere delle persone. Fino ad oggi il ciclo di vita tipico su cui è organizzata l’intera società è quello a tre stadi del modello che Modigliani e Broomberg hanno disegnato negli anni ’50 per descrivere il ciclo del risparmio.
Nel primo stadio, che dura fino a poco dopo l’adolescenza, i ragazzi non hanno redditi propri, ed i loro consumi assorbono il reddito dei genitori. Poi, tra i 20 e i 65 anni, nella fase centrale della loro vita lavorativa, le persone accumulano ricchezza. Infine, per i restanti 20-25 anni della loro vita, le persone consumano il risparmio accumulato in precedenza.
Questo schema ha come corollario che all’inizio del ciclo, attraverso l’educazione familiare, la scolarità, si formi anche la nostra dotazione iniziale di capitale umano, cioè l’insieme delle nostre capacità intellettuali e realizzative, e che nella fase successiva, quella lavorativa, consumiamo un po’ alla volta il nostro capitale umano iniziale, trasformando le nostre capacità in reddito monetario attraverso il lavoro. L’applicazione del medesimo modello di ciclo di vita ad una vita ultracentenaria, però, ha molte controindicazioni, perché implica una dilatazione della fase lavorativa fino ad oltre gli 80 anni di età oppure, in alternativa, una vita pensionistica lunghissima, quasi doppia di quella media attuale, con il rischio molto concreto di non avere poi le risorse sufficienti per sostenerla. Vista in questi termini, la longevità pare quindi una minaccia, non una benedizione.
Non la pensano però così la psicologa Linda Gratton e l’economista Andrew Scott. Per loro vivere oltre i 100 anni, infatti, è una sfida che offre anche molteplici opportunità. In un libro che ha avuto molta fortuna, intitolato “The one hundred year life” cioè “una vita di 100 anni”, Gratton e Scott analizzano le implicazioni di quello che hanno battezzato un ciclo di vita multistadio. In un arco di vita che si dilata oltre i 100 anni, è infatti possibile, se non addirittura necessario, cambiare spesso, cioè alternare molti lavori diversi e magari anche inventarsi molte vite diverse. L’unico modo di sfuggire al dilemma tra una vita lavorativa ripetitiva, ed interminabile, ed una vecchiaia in povertà, è cioè imparare a rigenerare in continuazione le proprie competenze, e saperle trasformare in nuove occasioni di reddito non solo all’inizio, ma nell’intero arco della vita.
Secondo Gratton e Scott questa constatazione, che è all’apparenza banale, ha implicazioni invece profonde e pervasive nelle nostre strategie di vita, perché presuppone che alla gestione del nostro capitale umano sia dedicata la stessa rilevanza strategica che di solito viene riservata soltanto al nostro capitale monetario, cioè alla gestione del patrimonio e alla pianificazione degli investimenti. Un’attenta pianificazione finanziaria e pensionistica sono cioè necessarie, ma nel prossimo futuro non saranno più sufficienti. Le chiavi della sicurezza personale e familiare dipenderanno infatti, sempre di più, anche da una gestione ben bilanciata e diversificata del tempo disponibile in funzione dell’acquisizione di nuove competenze, del mantenimento della nostra efficienza psicofisica anche in età avanzata.
L’approccio di Gratton e Scott allarga cioè il perimetro di competenza del wealth management anche alla gestione del capitale umano, e vi include anche discipline finora lontane dalla tradizionale consulenza finanziaria come l’empowerment personale, la diversificazione del tempo di formazione, la pianificazione delle carriere, e perfino la massimizzazione del benessere psicofisico, discipline che nel loro contesto diventano del tutto complementari, ed addirittura funzionali, all’ottimizzazione del capitale finanziario stesso. E’ quindi fatale che in un mondo di ultracentenari non siano destinate a cambiare solo le esigenze delle persone, ma inevitabilmente anche le frontiere e gli orizzonti della consulenza finanziaria.
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