Perché investire in PIR? Conviene alle imprese che cercano fonti di finanziamento alternative alla banca, conviene al risparmio che viene impiegato in modo virtuoso, conviene al nostro Paese. In studio, Nicola Saldutti, Caporedattore Economia – Il Corriere della Sera.
Nonostante tutto, i risparmiatori italiani stanno diventando molto più sofisticati di prima. Per l’aspetto dell’esenzione fiscale, che non fa pagare il 26% di tasse, e l’orizzonte temporale lungo (5 anni), i PIR sono unici.
Molto sarà legato al tipo di società che si quoteranno in Borsa. La formula dei PIR è rivolta soprattutto alle PMI che abbiano voglia di entrare in Borsa, magari con idee e prodotti innovativi. Il rischio è chiaramente più elevato, quindi ci vuole selezione sulle società. Ed il fatto che si siano superate, finora, le aspettative sulla raccolta, racconta di un forte interesse dei risparmiatori.
Tra l’altro, è la prima volta, con i PIR, che il fisco non è punitivo nei confronti del risparmio degli italiani. Ad un patto, ovviamente: tenere i soldi impegnati per un tempo medio-lungo. E, con il denaro impiegato per un certo tempo, l’impatto del medesimo sulla crescita è chiaramente più duraturo. Infatti, incentivare le aziende a quotarsi significa incentivarle a strutturarsi in una certa maniera, prodromica alla quotazione.
E’ un salto di qualità doppio, sia per il risparmiatore, premiato sul lato fiscale, che per l’azienda, che si migliora.
Quotarsi fa bene. Le aziende che si quotano in Borsa registrano tassi di crescita notevolmente superiori rispetto a quelle non quotate. Questo in termini di fatturato, totale attivi e patrimonio netto, ed occupazione. Le SpA, oltre a generare una maggiore redditività, risentono meno delle crisi finanziarie e delle conseguenti recessioni.
Questa è la realtà emersa dalla ricerca Consob, che ha messo a confronto medie imprese italiane quotate e non quotate nel decennio 2002 – 2011. A ben guardare, i vantaggi non sono solo finanziari. Quotarsi apre a tutti gli effetti le porte di un nuovo mondo, con molte più opportunità. Quotarsi in Borsa aumenta reputazione e visibilità a livello mondiale. Ciò permette all’azienda di attirare i migliori talenti sul mercato; con i migliori professionisti a disposizione, aumentano le competenze aziendali, e conseguentemente la qualità dei propri prodotti e servizi. Questo innesca un circolo virtuoso.
Dire no alla Borsa, quindi, può costare davvero tanto.
Prendiamo Pirelli come esempio. Era in Borsa, è stata delistata dopo l’offerta dei cinesi di ChemChina, adesso è tornata in Borsa. E’ la dimostrazione che essere quotati serve ad essere trasparenti, ma è anche occasione per reperire capitali per crescere. Ed ovviamente anche dare valore all’azienda. In Italia, tra l’altro, le aziende sono quasi tutte familiari, ed hanno valori spesso solo fittizi, almeno finché il mercato non gliene dà uno oggettivo.
Questa è la ragione per cui la quotazione, per le aziende familiari, è vissuta come un salto troppo forte. In realtà negli ultimi anni le cose stanno cambiando in meglio. Quotarsi costa, nel senso di fare entrare “in casa” qualcuno (istituzionali e/o investitori privati); significa, però, anche avere un accesso al mercato che altrimenti non si può avere.
Se si considera che la nazione cresce all’1,5%, e le società quotate quasi al 10%, quotarsi serve. Certo, c’è un rischio elevato sia nel quotarsi che nell’essere quotati, ma la crisi del 2007-2008 ha fatto sì che ci sia molta più serietà nel quotarsi.
Con i PIR sembra proprio che il livello di selezione di chi si affaccerà alla Borsa sarà più elevato. Aziende di qualità, quindi. Si parla di 1000 società che potrebbero quotarsi, portando un beneficio dell’1% al PIL. Non importa quante siano, comunque, l’importante è che siano ben selezionate.
Le banche, in questo, hanno un ruolo importantissimo. Si deve dire anche no a chi non ha i requisiti per andare in Borsa. In Italia ci sono 4 milioni di imprese, e non tutte, logicamente, hanno i numeri per quotarsi.
Sembra proprio che si stia costituendo una sorta di patto tra il risparmiatore attento e le aziende meritevoli. L’impresa, infatti, ha bisogno di flussi costanti, per poter progettare il proprio futuro. Sapere che ci sono investitori di lungo termine che impiegano il proprio risparmio, responsabilizza le aziende e le fa funzionare al meglio. E’ un patrimonio forte per immaginare i progetti futuri.
Per le imprese italiane, emanciparsi da un sistema bancocentrico non è facile, ma è possibile. Non mancano forti alternative di finanziamento per dar fiato all’economia. 35 miliardi alle imprese, in 5 anni, grazie a minibond, private equity, venture capital e crowdfunding. Il tutto senza contare gli oltre 2,5 miliardi che, con i PIR, sono già sbarcati in piazza affari.
Ma i numeri sono ancora troppo modesti. La marcia delle imprese verso il mercato è cominciata, ma con il freno a mano tirato. Il nostro sistema produttivo, improntato su un capitalismo familiare (oltre il 90% delle imprese italiane è a controllo familiare diretto), manifesta ancora molte riserve sui cambiamenti. Soprattutto in termini di dimensioni e di gestione derivanti dalla quotazione in Borsa.
Se i PIR stanno portando la finanza alle imprese, gli incentivi fiscali a sostegno di industria 4.0 (super ed iperammortamento) stanno portando le imprese ad investire su loro stesse. Una forza centrifuga che sta allentando la dipendenza delle imprese dalle banche. La strada dunque è segnata, e ci sarebbe da chiedersi quanto costi restare fuori da questo nuovo mondo.
Il sistema bancocentrico italiano è sì colpa delle banche, ma lo è anche delle imprese. Aprire il proprio capitale è sempre stato difficile in Italia. Ma le stesse imprese non vanno demonizzate; dopotutto, il capitalismo familiare italiano ha reso la nazione l’ottava economia del mondo. Ed anche in America molte imprese sono nate familiari… salvo poi internazionalizzarsi ed aprirsi al mondo, cogliendone i vantaggi.
In una fase come questa, dove le esigenze di investimento cresceranno, cambiare mentalità giova. L’autofinanziamento non basta e non basterà più. E fare meglio serve a tutti.
La Borsa ha infiniti difetti, ma su una cosa è chiara. Una società con buoni risultati ha anche delle buone performance, escludendo periodi nei quali il mercato impazzisce Di solito c’è una forte correlazione tra i risultati di un’azienda e l’andamento delle quotazioni.
Una large cap ha un flottante molto più ampio, quindi le oscillazioni, seppur presenti, sono meno ampie. Le PMI hanno flottanti più piccoli, più suscettibili a variazioni di mercato. La scommessa dei PIR è proprio quella di far crescere queste società, e renderle sempre più sicure e meno preda delle improvvise variazioni di mercato. Se l’andamento industriale è sano, anche le oscillazioni, seppur presenti, saranno più sane.
La soluzione è solo una: far quotare le società, ed aiutarle a crescere. Per farlo, i PIR sono un buono strumento, consentendo di investire in più rate.
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