A cura di Mario Noera, Docente di economia degli intermediari finanziari presso l’Università Bocconi. Il paradosso del rischio sui mercati finanziari.
Fin dai primi anni degli studi di economia, viene insegnato che per ottenere maggiori rendimenti bisogna inevitabilmente correre maggiori rischi. Questa regola è universalmente accettata, come lo è la legge della gravitazione universale.
La relazione positiva tra rendimento e rischio risponde alla medesima logica. Un postulato fondamentale della finanza è infatti quello che dice che il rendimento atteso più alto è l’incentivo richiesto dagli investitori per accettare rischi via via più elevati.
Per la teoria tradizionale è, infatti, impensabile guadagnare senza rischiare. Il rischio trascina il rendimento come la gravità trascina a terra la mela che si stacca dall’albero. Ne deriva un’idea; se si vuole accumulare ricchezza più in fretta, è inevitabile mettere in portafoglio strumenti sempre più rischiosi.
L’unico antidoto raccomandato in questi casi è il trascorrere del tempo. La volatilità è un fenomeno di breve periodo. Nel lungo periodo, le oscillazioni negative dei mercati tendono a compensarsi con quelle positive; i risultati medi sono, alla fine, migliori.
L’approccio comune postula quindi che, mantenendo gli investimenti rischiosi abbastanza a lungo (5-10 anni), l’esposizione al rischio si abbassi e diventi più sopportabile.
Un recente libro di due gestori olandesi sembra però dimostrare esattamente il contrario. Il libro si intitola “Alti rendimenti con bassi rischi”. I due autori hanno ordinato 1000 titoli azionari quotati sul mercato USA in base alla rischiosità media; poi hanno costruito due diversi portafogli, entrambi equipesati. Il primo era costituito dai primi 100 titoli azionari, quelli con volatilità più elevata (36%). Il secondo era costituito dai 100 titoli a volatilità più bassa (13%).
Sulla base dei postulati tradizionali della teoria, avremmo dovuto aspettarci un rendimento maggiore per il primo, almeno nel lungo periodo. Invece, con sorpresa, il risultato finale dell’esperimento è stato esattamente l’opposto. Il rendimento di gran lunga maggiore è stato quello dei titoli meno rischiosi.
In un arco di tempo molto lungo, dal 1929 al 2015, i titoli a più bassa volatilità hanno registrato una performance annua media di quasi il 4% superiore agli altri. La differenza non è di poco conto. 100 $ investiti all’inizio nei titoli meno rischiosi ne avrebbero resi, alle fine, 395.000. Gli stessi 100 $, investiti nei titoli più rischiosi, si sarebbero fermati a soli 21.000 dollari. Una ricchezza finale ben 18 volte inferiore.
Se vale la legge di gravità, le mele non possono tornare spontaneamente sull’albero. Qual è il paradosso del rischio, allora? Accumulare ricchezza nel tempo è come seguire una rotta nautica; non basta puntare in una direzione, bisogna anche tenere conto delle correnti, che tendono a frenare la corsa od a farla deviare.
La volatilità agisce sul percorso di crescita del patrimonio esattamente come le correnti marine; con una progressiva dispersione di energia che rallenta la velocità media di accumulazione della ricchezza.
Il rischio, contrariamente a quanto talvolta si dice, non misura soltanto le perdite potenziali a cui ci esponiamo nel breve periodo. Condiziona anche la traiettoria di lungo periodo, proprio come fanno le correnti marine.
Puntare indiscriminatamente su investimenti troppo aggressivi può quindi non essere affatto una buona idea. Cercare ad ogni costo di aumentare il rendimento atteso, aumentando l’esposizione al rischio, rallenta la crescita del patrimonio, anziché accelerarla. Alla fine può persino compromettere il raggiungimento dell”obiettivo finale.
In casi estremi, se la volatilità media annua è troppo alta, possiamo addirittura ottenere un patrimonio finale inferiore a quello di partenza. Il rischio è un po’ come il sale in cucina; in piccole dosi è necessario per dare sapore, se è troppo può rovinarle senza rimedio.
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