Intervista a Patrizia Ferro, Team Advisory Ersel, sugli impatti del protezionismo commerciale. I dazi dell’era trumpiana sono la questione macroeconomica del momento, e lo rimarranno a lungo.
Da molti mesi ormai il tema più coperto dai media, finanziari e non, è quello che riguarda il mutato contesto degli scambi commerciali internazionali dopo 70 anni di crescita praticamente ininterrotta.
Il dibattito e le analisi si sono svolte principalmente lungo due binari, le cause e le conseguenze. Sulle cause, quindi sul primo punto, c’è abbastanza unanimità nel ricercarle nella grande crisi finanziaria del 2008, e nel percorso che in questi ultimi dieci anni ha portato molti paesi a recuperare i livelli pre crisi, e a volte anche a superarli; il problema è che questo recupero non è stato uniforme, e quindi non tutte le aree geografiche, non tutte le classi sociali, non tutti i settori hanno beneficiato in egual misura.
Questo ha ingenerato una sorta di sfiducia e delusione nei confronti delle élite politiche economiche tradizionali. Sono però più che preoccupanti le conseguenze, che sono su due piani. Le conseguenze sul piano geopolitico e le conseguenze, invece, sul piano economico finanziario.
Sul piano geopolitico, i cambiamenti potranno essere nelle nuove alleanze, un nuovo ruolo degli organismi internazionali e un cambiamento dei precedenti equilibri economico finanziari; invece quello che riguarda più da vicino i portafogli di investimento sono le conseguenze sui grandi aggregati economici. Parliamo quindi di investimenti, consumi, livelli occupazionali e bilanci pubblici, equilibrio delle finanze pubbliche.
In generale, possiamo dire che un commercio libero è benefico per l’economia perché sostanzialmente aumenta il volume di beni complessivamente disponibili al consumo, e quindi promuove la crescita del PIL. Per converso, invece, un regime che limita in qualche modo questa libertà agli scambi, e quindi il volume, porta con sé delle implicazioni negative.
Analisti ed economisti sono quindi impegnati nel misurare quantitativamente questi effetti negativi; diciamo che se è relativamente facile calcolare degli effetti quantitativi diretti, lo è molto meno per gli effetti secondari. Facendo un esempio, è facile, forse più agevole, valutare gli effetti negativi per i dazi che vanno a colpire il settore dell’auto, ma poi bisogna considerare che le onde negative, dal settore auto, si propagano anche ad altri settori, come la componentistica, i trasporti, i servizi ed i materiali di base. In più, le onde negative si trasmettono anche verso il futuro attraverso il fattore incertezza, che invece è più difficilmente misurabile.
Perché è così importante il fattore incertezza? Perché in un contesto regolamentare incerto, gli operatori economici sono molto più cauti ad impegnarsi in progetti di investimento a lungo termine, preferendo quindi restare alla finestra, ed aspettare che ci sia un po’ più di chiarezza. Tutto questo meccanismo implica un raffreddamento prospettico dell’attività economica, per cui più che le stime quantitative degli effetti, è più importante invece guardare a quegli indicatori che misurano la pancia degli operatori, ovvero tutti quegli indicatori di fiducia che possono dare un’indicazione di un importante cambio di passo per il futuro.
Al momento questi indicatori di sentiment non stanno segnalando situazioni particolarmente allarmanti, ma sarà importante seguirne l’evoluzione futura.
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