Rubrica a cura di Mario Noera, Docente di Economia degli intermediari finanziari, per Anima SGR. Achille e la tartaruga del debito pubblico.
Il debito pubblico appare a molti una malattia ormai incurabile. Anno dopo anno, da decenni, i governi hanno proposto terapie più o meno drastiche di inasprimento fiscale o di riduzione di spesa pubblica, con la finalità di stabilizzare e ridurre l’indebitamento dello sìStato, ma i risultati ottenuti sono stati finora molto deludenti. La diagnosi ricorrente è che i tagli promessi si sono rivelati inadeguati, e che quindi per ottenere risultati apprezzabili, sarebbe stato necessario applicare un rigore ancora maggiore. Tuttavia, come nel famoso paradosso del filosofo presocratico Zenone, per cui Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, più si inaspriscono le restrizioni, più l’obiettivo sembra allontanarsi.
Come si sa, il debito diventa un problema se eccessivo rispetto alla capacità del paese di produrre ricchezza, cioè PIL. Il vero obiettivo delle politiche di stabilizzazione non è quindi ridurre il valore assoluto del debito, ma mantenere stabile, o decrescente, la proporzione tra debito e prodotto interno, che in Italia è ormai superiore al 130 per cento, cioè sensibilmente più elevata che altrove.
Il problema che a molti pare irrisolvibile è come fare a raggiungere l’obiettivo di riduzione del rapporto tra debito e pil. L’aritmetica della dinamica del debito cara agli economisti dice che il rapporto debito/pil cresce in ragione di tre variabili: il deficit primario, cioè il saldo tra entrate fiscali e spese non da interessi, le spese per gli interessi pagati sul debito e, terzo, la crescita nominale del pil, che a sua volta incorpora anche l’inflazione.
Dai primi anni ’90 in poi, i governi che si sono via via susseguiti hanno tentato di arginare la crescita del rapporto debito/pil agendo sempre esclusivamente sul primo fattore, il saldo primario, con progressivi aumenti della tassazione e tagli della spesa non da interessi, cioè pensioni, sanità, investimenti, le retribuzioni di dipendenti pubblici, e così via, nella convinzione questo, che è stata anche accreditata dalla teoria economica dominante, che le restrizioni fiscali fossero l’unica medicina efficace.
Se, come abbiamo spesso sentito ripetere, il debito cresce perché si vive al di sopra dei propri mezzi, la soluzione non può che essere espiare la passata prodigalità attraverso il ridimensionamento del proprio stile di vita. Osservati da vicino, però, i dati storici suggeriscono una visione molto diversa.
Un’analisi recente apparsa sul blog del Sole 24 Ore ad opera di due studiosi italiani, Sergio Cesaratto e Antonino Iero, ha scomposto il contributo relativo delle tre componenti, saldo primario, interessi e crescita, alla dinamica del rapporto debito/pil italiano tra il 1980 e oggi, mostrando che negli ultimi 40 anni, e soprattutto a partire dagli anni ’90, il fattore che ha portato il rapporto debito/pil dal 56 per cento del 1980 ad oltre il 130 per cento di oggi è stato in realtà uno solo: la componente da interessi, mentre le altre due, surplus primario e crescita economica, hanno invece sistematicamente concorso a ridurlo.
Cumulativamente, le cifre in gioco sono davvero impressionanti. Nel periodo 1993-2017, la spesa per interessi, presa da sola, aveva infatti fatto esplodere il rapporto debito pil di ben 160 punti percentuali. Cioè, senza le componenti compensative del surplus primario e della crescita, per effetto della sola spesa per interessi, il debito pubblico italiano sarebbe cioè oggi pari a oltre il 260 per cento, anziché il 131 per cento.
Nell’arco del periodo, le manovre fiscali restrittive sono riuscite a frenare solo parzialmente questa dinamica, ma il fattore davvero decisivo è stato il contributo della crescita nominale dell’economia, che ha riassorbito nel periodo quasi 80 punti percentuali di pil. Da almeno trent’anni, ciò che cresce al di sopra dei nostri mezzi sono cioè solo gli interessi che lo stato paga, non il nostro tenore di vita. Anzi, essendo gli interessi l’unica componente propulsiva del debito, si può dire che il nostro debito, almeno a partire dall’inizio degli anni novanta, cresce esclusivamente perché paghiamo cumulativamente interessi sugli interessi.
Rigore e sacrifici non sono quindi la giusta espiazione per i nostri eccessi, ma il contributo perverso ad una spirale finanziaria che si alimenta su se stessa, e che solo la crescita nominale del pil sembra capace di spezzare. Finché non si affronta questo paradosso, e le soluzioni perseguite finiscono per deprimere, anziché alimentare, le capacità di reazione dell’economia, Achille difficilmente riuscirà a raggiungere la tartaruga della riduzione del debito.
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