A cura del Prof. Mario Noera, Docente di economia degli intermediari finanziari presso l’Università Bocconi. L’euro è una valuta resiliente? E che vuol dire “resiliente”? E, se sì, perché?
In ingegneria il termine resilienza indica la capacità di un materiale di resistere agli urti, odi supportare torsioni prolungate senza collassare. Lo stesso concetto sembra applicarsi bene anche ai processi economici e monetari. Nell’ultimo secolo ci sono stati, infatti, sistemi monetari caratterizzati da resilienze molto diverse
Il sistema aureo, il Gold Standard (GS), è stato utilizzato dalla maggior parte dei paesi fino agli anni ’20 e ’30 del ‘900. Era un sistema estremamente rigido, poiché imponeva automaticamente molti vincoli automatici: cambi fissi; obbligo di regolare in oro le transazioni internazionali; obbligo che la creazione di moneta di ciascun paese fosse proporzionale alla quantità di oro detenuta dal medesimo. Il GS non resse l’urto della Prima Guerra Mondiale; implose negli anni successivi.
Molto più resiliente si è dimostrato il sistema di Bretton Woods, adottato dalle potenze che stavano vincendo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1944. Sulla scorta dell’infelice esperienza del GS, gli accordi di Bretton Woods non prevedevano automatismi rigidi. I cambi erano fissi verso il dollaro, ma all’occorrenza erano aggiustabili. Ed i pagamenti internazionali non dovevano più essere regolati in oro. I singoli governi avevano anche piena agibilità per le proprie politiche economiche. Gli squilibri venivano regolati col contributo di un ente sovranazionale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Il dollaro era formalmente legato alle scorte auree degli Stati Uniti; di fatto, la creazione monetaria americana era priva di vincoli, perché fino al 1971 nessun paese osava chiedere alla potenza egemone l’effettiva consegna di oro. Di fatto l’America era totalmente libera di fare la politica monetaria che meglio credessero. E ne abusarono, visto che, negli anni, i dollari in circolazione sono diventati un enorme multiplo dell’oro che essi detenevano.
Qualunque materiale, per quanto elastico e deformabile, ha un limite. Oltre questo, cede. Bretton Woods non resse alla richiesta della Francia di onorare in oro, anziché in dollari, i propri debiti. In risposta a questa richiesta, l’allora presidente USA Nixon sospese per sempre la convertibilità del dollaro in oro, e fece finire il sistema di Bretton Woods.
Tra il 1945 ed il 1971 la resilienza del sistema di BW si dimostrò formidabile. Di conseguenza, di recente un nutrito gruppo di economisti del CEPR, un autorevole think tank internazionale, ha pubblicato un libro di saggi che propongono di riformare l’Eurozona sulla falsariga di BW.
Una delle lezioni di BW è che quando si rinuncia irreversibilmente alla flessibilità del cambio, come in quest’unione monetaria, la ricomposizione delle divergenze economiche tra i diversi paesi deve essere assicurata dal coordinamento degli altri strumenti di governo macroeconomico. Cioè, dalle politiche fiscali e monetarie.
Fin dal Trattato di Maastricht del 1992, in Europa è prevalsa una visione diversa, ispirata soprattutto dalla Germania. In questo caso, l’autonomia fiscale dei singoli paesi dell’Eurozona non è solo fonte di potenziale instabilità per tutti, ma va limitata proprio ed anche per questo motivo.
Da questa impostazione derivano tutti i rigidi vincoli del Trattato: il tetto del 3% deficit/PIL; il tetto del 60% del rapporto debito/PIL; l’obbligo, recente, del pareggio di bilancio, istituito dal fiscal compact del 2011. Alla stessa logica si ispirano i limiti posti dal Trattato alla politica monetaria della BCE.
In queste condizioni, tutte le possibile leve di politica economica sono sottratte ai governi. La politica fiscale è affidata a rigidi criteri automatici, come il pareggio di bilancio. La politica monetaria è amministrata dal un ente sovranazionale come la BCE, che non può perseguire altro obiettivo che la stabilità dell’inflazione, ignorando la disoccupazione. I trattati, tra l’altro, vietano alla BCE di soccorrere gli stati in difficoltà.
In caso di shock come la recente crisi finanziaria, i governi non hanno a disposizione alcuno strumento di politica economica per reagire. Negli anni ’30 si uscì dalla grande crisi con politiche fiscali e monetarie molto espansive; ciò è impossibile ai governi aderenti all’euro. L’impianto istituzionale europeo non prevede, infatti, alcuna deroga alla propria rigidità. Solo l’evidenza di una rovinosa deflazione, cioè di discesa dei prezzi, ha consentito a Draghi di espandere la base monetaria anche nel rispetto dei limiti e dei vincoli dei trattati.
Fortunatamente la manovra monetaria è riuscita, finora a salvare l’euro. Le radici della crisi dell’euro e della sua crescente impopolarità vanno quindi cercate nell’estrema rigidità del sistema, che ingessa le capacità di reazione ai cicli avversi, e tende a rendere più lunghe e dolorose le crisi.
L’euro è oggi un comodo capro espiatorio, ma in realtà è innocente. Il vero problema è che l’unione monetaria assomiglia, finora, molto più al GS che a BW. Ma, certamente, non merita la stessa fine del primo.
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