Tina Adatia: La crisi lascerà ovviamente delle cicatrici su un mondo post-COVID. Cosa sono e cosa devono considerare gli investitori per questi?
Joachim Fels: Sì, Tina, penso che probabilmente ci saranno due vittime di questa crisi. La prima vittima sarà probabilmente la globalizzazione così come la conosciamo.
E la ragione è che molte aziende si stanno rendendo conto che le loro catene di fornitura sono diventate troppo complesse negli ultimi 10, 20 anni. Le catene di fornitura sono state ottimizzate, produzione just in time, contando sulla pronta disponibilità di trasporti rapidi e tutto il resto. Quindi tutto questo cambierà. Così le aziende guarderanno alle parti a terra della loro catena di fornitura. Cercheranno di creare ridondanze all’interno della catena di fornitura per poter far fronte a future interruzioni. Inoltre, penso che vedrete restrizioni più durature per viaggiare da parte di alcuni governi. E, dal lato della domanda, si vedrà forse meno disponibilità a viaggiare da parte di molte persone, anche una volta che il virus è sotto controllo. Questo significa, quindi, che ciò colpirà le economie, i settori e le aziende che hanno maggiormente beneficiato del commercio e del turismo. Quindi questa è la prima vittima, la globalizzazione.
La seconda vittima di questa crisi potrebbe essere l’indipendenza della banca centrale così come la conosciamo. E il motivo è che probabilmente assisteremo a un ulteriore, massiccio aumento del debito pubblico e privato. I governi e il settore privato avranno bisogno di tutto l’aiuto possibile dalle banche centrali sotto forma di tassi di interesse bassi o addirittura negativi, e di un maggior numero di acquisti di titoli di Stato da parte delle banche centrali. E pensiamo che sarà molto difficile per le banche centrali negare questa forma di aiuto, anche se l’inflazione aumentasse a medio e lungo termine. Quindi penso che uno dei rimedi sarà che le banche centrali porranno un limite massimo ai rendimenti, sia direttamente con varie forme di controllo della curva dei rendimenti, sia indirettamente con il solo acquisto di grandi quantità di titoli di Stato anche in un momento in cui l’inflazione aumenta. Questo è quindi uno dei modi in cui possiamo affrontare il crescente debito che probabilmente vedremo nel settore pubblico, ma anche in quello privato.
Andrew Balls: A proposito, solo una cosa da aggiungere; tornando alle prospettive a più breve termine, ci siamo concentrati molto sulla linea di base a forma di U, i rischi, i rischi negativi per quella linea di base. Ci sono anche rischi al rialzo. Speriamo che ci siano progressi medici in termini di vaccini o trattamenti che ci portino ad aggiornare nel tempo alcune delle nostre previsioni rispetto alle linee di base. Nella prospettiva ciclica di molti dei nostri pensieri, siamo più concentrati sui rischi negativi. Purtroppo, è qui che pensiamo che il bilancio dei rischi sia a breve termine. C’è anche un caso di rischio positivo, che è possibile vedere realizzato anche in parte.
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Il dollaro USA domina il commercio globale. Nel 2019, circa l’88% delle transazioni internazionali ha riguardato il dollaro USA. Nessun’altra valuta si è avvicinata a quersto livello. Questo dà agli Stati Uniti un potere straordinario su quasi tutti coloro che importano o esportano qualcosa, ovunque. Materie prime come l’oro, il petrolio e il caffè hanno tutte un prezzo in dollari, indipendentemente dalla loro provenienza, ma questa nube ha frustrato a lungo i rivali degli americani, rendendoli vulnerabili alle sanzioni commerciali statunitensi. Ecco come funziona l’economia globale con il dollaro USA e perché alcuni paesi stanno sviluppando sistemi alternativi che potrebbero ridurre il dominio del dollaro.
“Il dollaro è arrivato a dominare il commercio dopo la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti erano la più grande economia del mondo, altri paesi cercavano di ricostruire e il dollaro era stabile e abbondante”.
Nel 1944, una conferenza di 44 nazioni decise di agganciare le loro valute al dollaro USA, mentre il dollaro stesso era agganciato all’oro. Con la crescita del commercio globale, è cresciuto anche l’uso del dollaro per condurre gli affari mondiali. Anche dopo che gli Stati Uniti abbandonarono il gold standard nel 1971, il dollaro rimase la valuta scelta dal mondo.
“Il mondo si è abituato a fare affari in dollari perché è più facile che fare affari in qualsiasi altra valuta. Il dollaro è incredibilmente liquido, il che significa che è facile comprare e vendere cose in tutto il mondo. Il sistema bancario statunitense è molto efficiente, e queste cose si combinano per rendere più economico per le imprese comprare e vendere in dollari”.
Ecco come funziona una tipica transazione internazionale in dollari USA. Un’azienda di legname canadese vende tavole a un costruttore di case francese. La banca acquirente in Francia e la banca venditrice in Canada regolano un pagamento in dollari tramite banche corrispondenti negli Stati Uniti. Queste banche corrispondenti hanno conti presso la Federal Reserve degli Stati Uniti. Il denaro viene trasferito senza soluzione di continuità tra queste banche sui conti registrati presso la Fed, perché il loro status di banche corrispondenti significa che sono considerate controparti sicure. Gli Stati Uniti dicono che l’uso di queste banche corrispondenti significa che ogni transazione tecnicamente tocca il suolo americano, dandogli giurisdizione legale e obbligando i paesi stranieri a rispettare le leggi sul riciclaggio di denaro sporco in materia di corruzione.
“Dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno usato il potere del dollaro per portare avanti i loro obiettivi di politica estera. L’idea era di tagliare le fonti di finanziamento per le organizzazioni terroristiche”.
Gli Stati Uniti hanno usato il loro controllo del dollaro per aumentare la sorveglianza dei flussi monetari globali e frenare i finanziamenti verso i cattivi attori. Lo hanno fatto imponendo sanzioni ai propri rivali. Secondo il sistema, se un’impresa o un paese cerca di commerciare con un’entità sanzionata in dollari, gli Stati Uniti hanno il potere di tagliare il suo accesso alla valuta statunitense. Ma altri paesi stanno costruendo dei sistemi alternativi.
Alcuni paesi dell’UE si oppongono alle sanzioni statunitensi contro l’Iran. Queste sanzioni, messe in atto dopo che gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare iraniano nel 2018, comprendono il divieto di transazioni in dollari con le banche iraniane. Di conseguenza, l’UE sta sviluppando un ritorno all’euro sistema che è stato progettato per facilitare il commercio tra l’Europa e l’Iran senza inviare denaro attraverso le frontiere.
“I Paesi dell’UE che sono ancora nell’accordo con l’Iran stanno cercando di trovare un modo per aggirare il sistema statunitense, in modo da poter commerciare con l’Iran. Ora, questo dà fastidio agli Stati Uniti, che stanno cercando di esercitare la massima pressione sull’economia iraniana”.
L’India ha già un sistema di pagamento alternativo che sta utilizzando per fare affari con l’Iran. Secondo un’indagine del Wall Street Journal, è stato utilizzato per facilitare le transazioni con le entità iraniane sanzionate, ma gli Stati Uniti stanno ancora esercitando la loro influenza in Medio Oriente attraverso il potere del dollaro USA.
“Il dollaro domina ancora il commercio globale. Lo si può vedere nello stallo tra gli Stati Uniti e l’Iraq. L’Iraq dice di volerci buttare fuori dal paese. Gli Stati Uniti hanno detto ‘vi taglieremo fuori dai vostri dollari nel sistema USA’. Ma in futuro non è chiaro quanto forte rimarrà questa minaccia, dato che altri paesi stanno cercando di ridurre il potere del dollaro”.
Se il potere del dollaro cade, potrebbe danneggiare la capacità degli Stati Uniti di controllare il sistema commerciale globale.
]]>• Le crescenti tensioni geopolitiche e geoeconomiche rappresentano il rischio più urgente nel 2019, con il 90% degli esperti che afferma di aspettarsi un ulteriore confronto economico tra grandi potenze nel 2019
• Il degrado ambientale è il rischio a lungo termine che definisce la nostra età, con quattro dei cinque principali rischi globali più incisivi nel 2019 relativi al clima
• Le minacce informatiche e tecnologiche in rapida evoluzione sono i potenziali punti ciechi più significativi; non apprezziamo ancora pienamente la vulnerabilità delle società collegate in rete
• Leggete il rapporto completo del WEF (World Economic Forum) qui.
La capacità del mondo di promuovere l’azione collettiva di fronte a crisi urgenti gravi ha raggiunto livelli di crisi, con il peggioramento delle relazioni internazionali che ostacolano l’azione in una crescente serie di gravi sfide. Nel frattempo, un peggioramento delle prospettive economiche, in parte causato da tensioni geopolitiche, sembra destinato a ridurre ulteriormente il potenziale di cooperazione internazionale nel 2019. Questi sono i risultati del Global Risks Report 2019 del World Economic Forum, pubblicato il 16 gennaio 2019.
Il Global Risks Report, che incorpora i risultati della Global Risks Perception Survey annuale di circa 1.000 esperti e decisori, indica un deterioramento delle condizioni economiche e geopolitiche. Le controversie commerciali sono peggiorate rapidamente nel 2018 e il rapporto avverte che la crescita nel 2019 sarà frenata da continue tensioni geo-economiche, con l’88% degli intervistati che prevede un’ulteriore erosione delle regole e degli accordi commerciali multilaterali.
Se i venti contrari dell’economia rappresentano una minaccia per la cooperazione internazionale, secondo il rapporto, nel 2019 gli sforzi saranno ulteriormente sconvolti dalle crescenti tensioni geopolitiche tra le maggiori potenze. L’85% degli intervistati del sondaggio di quest’anno ha dichiarato di aspettarsi che il 2019 comporti maggiori rischi di “scontri politici tra grandi potenze”. Il rapporto discute i rischi associati a ciò che descriviamo come un ordine mondiale “multiconcettuale”, in cui le instabilità geopolitiche riflettono non solo il cambiamento dei bilanci di potere ma anche la crescente importanza delle differenze sui valori fondamentali.
“Con il commercio globale e la crescita economica a rischio nel 2019, è più che mai urgente rinnovare l’architettura della cooperazione internazionale. Semplicemente non abbiamo la polvere da sparo per affrontare il tipo di rallentamento che le attuali dinamiche potrebbero portarci verso. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è un’azione coordinata e concertata per sostenere la crescita e affrontare le gravi minacce che affliggono il nostro mondo oggi “, ha affermato Børge Brende, presidente del World Economic Forum.
Nella prospettiva decennale del sondaggio, i rischi informatici hanno sostenuto il balzo in avanti che hanno registrato nel 2018, ma i rischi ambientali continuano a dominare le preoccupazioni degli intervistati oltre il breve termine. Tutti e cinque i rischi ambientali che il rapporto registra sono di nuovo nella categoria ad alto impatto e alta probabilità: perdita di biodiversità; eventi meteorologici estremi; fallimento della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici; disastri causati dall’uomo; e disastri naturali.
Alison Martin, Group Chief Risk Officer di Zurich Insurance Group, ha dichiarato: “Il 2018 è stato purtroppo un anno di incendi storici, ha continuato a causare forti alluvioni e aumento delle emissioni di gas serra. Non sorprende che nel 2019 i rischi ambientali ancora una volta dominino l’elenco delle principali preoccupazioni. Lo stesso vale per la crescente probabilità di fallimento della politica ambientale o per la mancanza di un’attuazione politica tempestiva. Per rispondere efficacemente ai cambiamenti climatici è necessario un significativo aumento delle infrastrutture per adattarsi a questo nuovo ambiente e la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Entro il 2040, si prevede che il divario di investimento nell’infrastruttura globale raggiungerà $ 18 trilioni contro un fabbisogno previsto di $ 97 trilioni. In questo contesto, raccomandiamo vivamente alle imprese di sviluppare una strategia di adattamento alla resilienza del clima e di agire su di essa ora”.
Anche i rischi ambientali pongono problemi all’infrastruttura urbana e al suo sviluppo. Con l’aumento del livello del mare, molte città affrontano soluzioni estremamente costose a problemi che vanno dall’estrazione pulita delle acque sotterranee alle barriere super-tempesta. Le carenze di investimenti in infrastrutture critiche come i trasporti possono portare a guasti a livello di sistema nonché a esacerbare i rischi sociali, ambientali e sanitari associati.
John Drzik, Presidente di Global Risk e Digital, Marsh, ha dichiarato: “Il persistere nel finanziamento di infrastrutture critiche in tutto il mondo sta ostacolando il progresso economico, lasciando le aziende e le comunità più vulnerabili agli attacchi informatici e alle catastrofi naturali e non riuscendo a sfruttare al massimo l’innovazione tecnologica. L’allocazione delle risorse agli investimenti infrastrutturali, in parte attraverso nuovi incentivi per i partenariati pubblico-privato, è vitale per costruire e rafforzare le basi fisiche e le reti digitali che consentiranno alle società di crescere e prosperare”.
A livello individuale, il declino del benessere psicologico ed emotivo è sia una causa che una conseguenza all’interno del più ampio panorama globale dei rischi, che influisce, ad esempio, sulla coesione sociale e sulla cooperazione politica. Il Global Risks Report 2019 si concentra esplicitamente su questa parte umana dei rischi globali, osservando in particolare il ruolo svolto dalle complesse trasformazioni globali in corso: societarie, tecnologiche e legate al lavoro. Un tema comune è che lo stress psicologico si riferisce a una sensazione di mancanza di controllo di fronte all’incertezza.
Il rapporto di quest’anno fa rivivere la serie Future Shocks, che riconosce che la crescente complessità e l’interconnessione dei sistemi globali possono portare a cicli di feedback, effetti soglia e interruzioni a cascata. Questi scenari “what if” sono spunti di riflessione in quanto i leader mondiali valutano potenziali shock che potrebbero sconvolgere rapidamente e radicalmente il mondo. Le improvvise e drammatiche interruzioni di quest’anno includono vignette sull’uso della manipolazione meteorologica per alimentare tensioni geopolitiche, calcolo quantistico e affettivo e detriti spaziali.
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Immaginiamo la scena. Fuori fa freddo; sta nevicando, siamo a Chicago, nel bel mezzo dell’inverso. Infatti è febbraio e siamo a San Valentino. E c’è un uomo affascinante, che sta per consegnare delle meravigliose rose a qualcuno su cui vuole fare colpo. Un momento… rose? A Chicago? A Febbraio? Da dove arrivano?
Non da una serra negli Stati Uniti; non ce ne sono abbastanza. A San Valentino sono consegnati milioni di rose in tutti gli Stati Uniti e nel mondo. Ma da dove vengono tutte queste rose?
La rosa è un vero prodotto globale. Esse crescono in nazioni come l’Ecuador, la Colombia, il Kenya. Dietro ogni rosa venduta a San Valentino c’è un network di persone da tutte le parti del mondo. Da colui che le coltiva, a chi le spedisce, al distributore e al retailer, tutti contribuiscono a produrre e vendere rose dal campo alla vendita in pochi giorni.
Questo processo stupefacente non è diretto in modo centralizzato. Non c’è un “signore delle rose” e nessuna produzione centralizzata. E, quel che più stupisce, è che nessuno sa come l’intero processo funzioni davvero. Questo perché ogni individuo vede solo una piccola parte del processo medesimo; ed ogni individuo agisce solo per il proprio interesse. Ma, attraverso il sistema dei prezzi, la conoscenza locale di ogni individuo e l’interesse locale sono coordinati con tutto l’insieme. Sembra quasi, come diceva Adam Smith, che siano guidati da una “mano invisibile”.
Quindi, quando regaliamo una rosa, pensiamo che non è solo un simbolo d’amore, ma anche un simbolo della cooperazione globale, coordinato da una mano invisibile
Ma cos’è questa mano invisibile? Come funziona? Nelle parole del suo creatore è quel concetto grazie al quale nel libero mercato la ricerca egoistica del proprio interesse gioverebbe tendenzialmente all’interesse dell’intera società, e mirerebbe a trasformare quelli che costituiscono “vizi privati” in “pubbliche virtù” portando all’equilibrio economico generale.
]]>Quando si usa questa parola, si parla del movimento di cose attraverso i confini nazionali. Ogni tipo di roba: cose, servizi, denaro, persone, idee.
Fino alle fine del 1700, inizio dell’800, il mondo non è cresciuto molto, economicamente parlando. Era piuttosto piatto, per così dire. Poi, all’improvviso, accadde qualcosa. Questo qualcosa è stato l’enorme aumento della qualità delle vita delle persone nell’Europa Occidentale ed in Nord America, grazie alle varie fasi della rivoluzione industriale. Le loro vite migliorarono sensibilmente nel corso del secolo seguente. Nel resto del mondo, invece, non cambiava molto.
C’è poi stato un altro cambiamento. E’ arrivata la seconda fase della globalizzazione, il che ci porta ad una cosa conosicuta come il “grafico dell’elefante”. Questo grafico è stato creato da un’economista di nome Branko Milankovic. Il grafico ci dice molto riguardo alla disuguaglianza globale, e su chi siano stati i vincitori ed i vinti sin dalla fine degli anni ’80.
Come si vede, il grafico è fatto come un elefante; ci sono tre punti chiave sul grafico stesso. Il punto A è la testa dell’elefante. E’ la storia delle economie emergenti. La classe media che si sta sviluppando, particolarmente in Asia. Una persona è probabilmente nata in India od in Cina, ed la lasciato la fattoria per la città. Ottiene elettricità, refrigerazione, un reddito migliore. Si vive più a lungo e si vive meglio.
Il punto B sono i lavoratori in Germania, Giappone e negli Stati Uniti. Sono la metà più bassa delle economie ricche. Ottengono un giusto quantitativo di denaro paragonato al resto del mondo, ma i loro redditi non sono migliorati. Questi sono i perdenti relativi dell’ultima generazione. Se da punto B si guarda sopra la propria spalla a tutto il progresso fatto dal punto A, non si è proprio contenti di ciò che si vede. Si può ragionevolmente pensare che le proprie perdite siano state causate dai guadagni ottenuti dal punto A. Guadagni andati alle economie emergenti, agli stranieri, agli immigranti. Ciò ci permette di capire meglio la salita dei politici che vogliono aumentare le divisioni, come accaduto in Olanda, in Francia, negli Stati Uniti. Populismo di destra.
C’è quindi il punto C. Questo è il famoso 1% globale. I loro redditi sono aumentati. Questi sono i plutocrati. Sono le persone più ricche del mondo. E se si guarda a chi sta guardando quelli in alto al punto C, sono gli stessi che sono in basso al punto B. Ciò ci permette di capire la rabbia nei confronti dei super ricchi. I movimenti come Occupy Wall Street, e la campagna di Bernie Sanders per le primarie del Partito Democratico. Questo è il populismo della sinistra.
Gli esperti ci hanno avvertito per decenni che se non si fa niente per questi problemi di distribuzione di ricchezza, qualcosa accadrà di sicuro. Politicamente, qualcosa sta già accadendo.
]]>Inizia tutto dalla gente. Al mondo ci sono circa 7,2 miliardi di persone; un bel po’ di gente. Parlando storicamente, sì. I nostri nonni sono nati in un mondo che ne aveva “solo” due miliardi. I nostri genitori in uno che ne aveva tre, tanto per dare un termine di paragone. Ma… come sono distribuite le persone nel mondo? Iniziamo dai giganti, Cina ed India.
Questi due stati, ciascuno, hanno più di 1 miliardi di abitanti. Per la precisione, circa 1,3 miliardi di persone risiedono in questi Stati. Una semplice addizione ci dà 2,6 miliardi di persone in solo due nazioni. E rappresenta il 36% dell’intera popolazione mondiale, più di un terzo.
Questi Stati sono in Asia. In tutto il continente ci sono 4,2 miliardi di persone. Quindi più del 50% delle persone al mondo risiede in un solo continente. Dove sono i restanti 3,2 milioni di persone?
In ordine decrescente, 1,2 miliardi sono in Africa; 750 milioni in Europa; 550 milioni in Nord America; 400 milioni in Sud America. E c’è anche l’Oceania, dove in tutto il continente ci sono solo 36 milioni di persone. A paragone degli altri, la popolazione oceanica sembra un errore statistico.
L’Africa ha circa la stessa popolazione di Europa e Nord America combinate insieme. A livello economico, l’intera Africa vale appena la Francia. Questo spiega come mai l’Africa sia un continente che soffre. Il loro output economico è minuscolo comparato all’enormità della popolazione. In contrasto, l’Europa ed il Giappone fanno pochi figli per sostenere le loro economie.
La crescita economica dell’Africa sta faticando parecchio a tenere il passo della crescita della propria popolazione. Quest’ultima è triplicata a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Se fosse rimasta costante, e quindi oggi ci fossero 400 milioni di persone in quel continente, il PIL nominale pro capite oggi sarebbe equivalente a quello della Russia. La situazione, invece, è ben diversa.
Per chi non mastica troppo bene l’economia, il PIL è il Prodotto Interno Lordo. In termini semplici, il PIL è una misura di tutte le merci ed i servizi prodotti dall’economia una nazione. Un’altro modo di vederla è questo. Gli Stati hanno gente nei loro confini. Le persone necessitano di merci. Quindi, più alto è il PIL, più merci e quindi più benessere avranno le persone.
Il PIL è anche una misura del potere economico di uno stato. E ci sono molte maniere per misurarlo. Proprio per questo, c’è un forte e produttivo dibattito sul concetto stesso di PIL. In questo video verrà considerato il PIL nominale per comparare gli stati. Quindi, chi sono i pesi massimi dell’economia mondiale?
L’intero pianeta produce un valore annuale di merci e servizi pari a 74 trilioni di dollari. 2 nazioni fanno da sole la parte del leone di questo numero.
I primi al mondo sono gli Stati Uniti, con la ragguardevole cifra di 18 miliardi di dollari di PIL. Cioè 1/4 (od il 25%) di quanto produce il mondo annualmente. I secondi sono i cinesi, con attualmente 11 trilioni di PIL, che rappresenta circa il 15% dell’output mondiale. E sono in rapida crescita. Insieme, Stati uniti e Cina rappresentano il 40% della produzione mondiale di qualsiasi cosa, quindi dell’economia mondiale.
Se questa classifica la facciamo per continente, è invece l’Europa in cima la podio, con un’impressionate 24 trilioni di dollari di PIL. Il tutto equivale a circa il 33%, cioè 1/3, dell’economia mondiale. L’Unione Europea, che è una grossa parte, ma non tutta l’Europa, produce 20 trilioni di dollari. Cioè produce più dell’America. Questo vuol dire che l’Europa dominerebbe le discussioni economiche se non fosse divisa in piccole nazioni sempre pronte a discutere tra di loro. Non solo, ma anche a lasciare decidere le cose importanti a burocrati dai capelli grigi…
Il PIL dell’Oceania è 1,8 trilioni. Un’altro errore statistico (quasi). Parlando seriamente, l’Australia (che è la maggior parte dell’Oceania) è quasi disabitata e con una forte componente di natura selvaggia, spesso pericolosa.
Comparando gli Stati Uniti e la Nigeria, ci si può chiedere come mai il PIL americano sia così più grande di quello nigeriano, che è circa mezzo trilione di dollari. Le due popolazioni differiscono solo di 100 milioni a favore degli States.
La questione può essere vista da diverse prospettive. Una di questa sono le imprese. L’America ha Walmart, ExxonMobil, Apple, Microsoft, GM, GE, Kraft, Google,Ford, Tesla, Johnson & Johnson, e così via. Tutte queste società pagano le tasse in America (almeno la maggior parte di esse).
Apple ha un reddito annuale di circa 230 miliardi di dollari, che da solo è quasi la metà del PIL nigeriano. La liquidità a disposizione di Apple è più di 200 milioni, cioè circa 8 volte le riserve in valuta estera della Nigeria stessa. Altri dati? La capitalizzazione di tutto il mercato azionario russo è circa mezzo trilione di dollari. Questo equivale a… Google. Oppure Apple, o Microsoft.
L’America ha enormi imprese, e di successo. A livello economico, i loro amministratori delegati sono spesso più influenti di molti capi di stato. Ciò che manca a queste imprese è solo un esercito per essere degli Stati…
Se si fanno due conti, i ricavi di Apple sono circa l’1,3% del PIL americano. Se si pensa che sia tanto, basta pensare a quanto conti la Volkswagen per la Germania, cioè l’8%. Ma questo è niente se comparato alla Samsung, cioè la madre di tutte le imprese che dominano uno stato.
La Corea del Sud ha circa 50 milioni di abitanti, più di tutta l’Oceania. Ed il suo PIL è due volte quello dell’Arabia Saudita. Samsung vale circa il 20% del PIL sudcoreano. La società non è solo telefonini, o televisori. Quasi nessuno sa che Samsung produce navi, possiede servizi bancari ed assicurativi, e società di costruzioni. Insomma, è un gigantesco conglomerato industriale e di servizi. Con le sue simili LG e Hyundai, l’economia coreana è rappresentata per più della metà da queste sole tre imprese.
Il titolo di questo video è ingannevole. Dice che questi numeri dovrebbero essere conosciuti. Ma ricordarseli a mente è inutile, visto che cambiano costantemente. Ma conoscendo la loro ampiezza e dimensione, la prospettiva sulle cose cambia davvero.
]]>Si tratta di un effetto collaterale inaspettato della globalizzazione. I problemi che un tempo sarebbe rimasti locali – per dire, un credito bancario fuori di troppi soldi – ora hanno conseguenze in tutto il mondo. Ma i paesi operano in modo indipendente, come se fossero da soli sul pianeta. Il consigliere politico Simon Anholt ha immaginato una insolita scala per ottenere che i governi pensino in maniera differente. Si tratta del The Good Country Index. In un discorso avvincente e divertente, risponde alla domanda: “In quale paese si fa più del bene?” La risposta potrebbe sorprendervi (soprattutto se si vive negli Stati Uniti o in Cina).
Di recente ho pensato molto al mondo ed a come è cambiato negli ultimi 20, 30, 40 anni. Venti o trenta anni fa, se un pollo si prendeva il raffreddore, starnutiva e moriva in un remoto villaggio dell’Est Asiatico, sarebbe stata una tragedia per il pollo e i suoi parenti, ma non credo che avremmo temuto una pandemia globale e la morte di milioni di persone. Venti o trenta anni fa, se una banca in Nordamerica prestava troppi soldi a un po’ di persone che non potevano permettersi di rimborsare e la banca fosse fallita, sarebbe stato un male per chi aveva prestato e chi aveva preso in prestito, ma non avremmo immaginato che avrebbe messo in ginocchio l’economia globale per più di un decennio.
Questa è la globalizzazione. Questo è il miracolo che ci ha permesso di trasbordare corpo, mente, parole, immagini, idee, insegnamento e apprendimento nel mondo sempre più rapidamente e in modo sempre più economico. Ha portato tante cose negative, come quelle che ho appena descritto, ma ha portato anche molte cose positive. Molti di noi non sanno dello straordinario successo degli Obiettivi di sviluppo del Millennio molti dei quali sono stati raggiunti molto prima della scadenza. Questo dimostra che questa umanità è capace di fare grandi progressi se unisce le forze e ce la mette tutta. Ma se dovessi riassumere questi giorni, sento che la globalizzazione ci ha sorpresi, e siamo stati poco reattivi.
Se osservate i lati negativi della globalizzazione, sembra veramente che sia talvolta travolgente. Tutte le grandi sfide che affrontiamo oggi, come il cambio climatico e i diritti umanitari, i problemi demografici, il terrorismo, le pandemie, il narcotraffico, lo schiavismo e l’estinzione delle specie, potrei andare avanti, non stiamo facendo molti progressi di fronte a queste prove.
Quindi, per riassumere, questa è la sfida che affrontiamo oggi a questo punto della storia. È chiaramente quello che dobbiamo fare adesso. Dobbiamo in qualche modo agire insieme e dobbiamo capire come globalizzare meglio le soluzioni in modo da non diventare solo una specie vittima della globalizzazione dei problemi.
Perché siamo così lenti a fare progressi? Qual è il motivo? Ovviamente, le ragioni sono diverse, ma forse la ragione principale è che siamo ancora organizzati, in quanto specie, così come eravamo organizzati 200 o 300 anni fa. È rimasto un superpotere al mondo, ossia i sette miliardi di persone, sette miliardi di noi che causano tutti questi problemi, gli stessi sette miliardi che li risolveranno. Ma come sono organizzati questi sette miliardi? Sono ancora organizzati in circa 200 stati-nazione, e le nazioni hanno governi che creano regole e ci spingono a comportarci in un certo modo. È un sistema abbastanza efficiente, ma il problema è che il modo in cui sono fatte queste leggi e il modo di pensare del governo è assolutamente sbagliato per la risoluzione dei problemi globali, perché è rivolto all’interno.
I politici che eleggiamo e il politici che non eleggiamo, nel complesso, hanno una mentalità rivolta all’interno. Non hanno una mentalità rivolta all’esterno. Guardano dentro. Fanno finta, si comportano come se credessero che ogni paese è un’isola che vive felicemente, indipendentemente da tutti gli altri sul proprio piccolo pianeta nel proprio piccolo sistema solare. Questo è il problema: paesi che competono tra di loro, paesi che combattono tra di loro. Questa settimana, come ogni settimana, troverete persone che cercano di uccidersi da un paese all’altro, ma anche quando non accade, c’è competizione tra paesi, ognuno cerca di fregare l’altro.
Chiaramente, non è una buona soluzione. Chiaramente dobbiamo cambiare. Dobbiamo trovare il modo di incoraggiare i paesi a lavorare insieme un po’ meglio. E perché non lo faranno? Perché i nostri leader insistono a guardare all’interno?
l primo e più ovvio motivo: è quello che chiediamo loro di fare. È quello che diciamo loro di fare. Quando eleggiamo i governi o quando tolleriamo governi non eletti, stiamo dicendo loro che quello che vogliamo è che realizzino per il paese un certo numero di cose. Vogliamo che diano prosperità, crescita, competitività, trasparenza, giustizia e tutte queste cose. Quindi a meno che non chiediamo ai nostri governi di pensare un po’ oltre, di considerare i problemi globali che ci finiranno tutti se non cominciamo a pensarci, allora non possiamo accusarli se continuano a guardare all’interno, se hanno ancora mentalità ristrette invece che mentalità allargate. Questo è il primo motivo per cui le cose non cambiano.
Il secondo motivo è che i governi, proprio come tutti noi, sono psicopatici culturali. Non voglio essere grossolano, ma sapete cos’è uno psicopatico. Una psicopatico è una persone che, sfortunatamente, non ha la capacità di empatizzare con altri esseri umani. Quando si guardano intorno, non vedono altri esseri umani con vite personali profonde, in tre dimensioni, con scopi e ambizioni. Quello che vedono è un cartonato ed è molto triste e solitario, ed è molto raro, fortunatamente.
Ma, in realtà, non è vero che molti di noi non provano molta empatia? Certo, siamo molto empatici quando si tratta di affrontare persone che ci somigliano, che camminano, parlano, mangiano, pregano e si vestono come noi. Ma quando si tratta di persone che non lo sono, che non si vestono come noi, non pregano come noi e non parlano come noi, non abbiamo la tendenza a vederli anche noi come dei cartonati? Questa è una domanda che dovremmo porci. Penso sempre che dovremmo tenerla sotto controllo. Noi e i nostri politici in un certo senso siamo psicopatici culturali?
Il terzo motivo non vale la pena di essere menzionato perché è molto stupido, ma i governi credono che l’agenda interna e l’agenda internazionale sono incompatibili e sempre lo saranno. Non ha senso. Nel mio lavoro quotidiano, sono un consulente politico. Ho passato gli ultimi 15 anni a consigliare governi di tutto il mondo, e in tutto questo tempo non ho mai visto un singolo problema interno che non poteva essere risolto in modo più efficace, rapido e con più immaginazione del trattarlo come un problema internazionale, osservando il contesto internazionale, confrontando quello che hanno fatto gli altri, coinvolgendo altri, lavorando esternamente invece di lavorare internamente.
Considerato tutto questo, potreste chiedervi perché non funziona. Perché non possiamo far cambiare i nostri politici? Perché non possiamo chiederglielo? Io, come tutti voi, passo il tempo a lamentarmi di come sia difficile far cambiare le persone, e non credo che dovremmo lamentarci. Credo che dovremmo accettare di essere una specie profondamente conservativa. Non ci piace cambiare. Esiste per ragioni evolutive molto sensate. Probabilmente non saremmo ancora qui oggi se non fossimo così resistenti al cambiamento.
È molto semplice: migliaia di anni fa, abbiamo scoperto che se continuavamo a fare le stesse cose, non saremmo morti, perché le cose che abbiamo fatto in precedenza per definizione non ci hanno ucciso. Quindi finché continuiamo a farle, staremo bene, ed è molto ragionevole non fare niente di nuovo, perché potrebbe ucciderci. Ma, ovviamente, ci sono eccezioni. Altrimenti, non andremmo da nessuna parte. Una delle eccezioni, quella interessante, è quando si può mostrare alla gente che ci potrebbe essere un interesse personale nel fare quell’atto di fede e cambiare un po’.
Ho passato gli ultimi 10 o 15 anni a cercare di scoprire quale potrebbe essere quell’interesse personale che incoraggerebbe non solo i politici, ma anche le aziende e la popolazione, tutti noi, a cominciare a pensare un po’ più apertamente, a pensare ad un quadro più grande, non solo verso l’interno, qualche volta verso l’esterno. È qui che ho scoperto una cosa abbastanza importante. Nel 2005 ho lanciato uno studio chiamato Nation Brands Index.
È una ricerca su scala molto grande che intervista una campione molto vasto di popolazione mondiale, un campione che rappresenta circa il 70 per cento della popolazione mondiale, e ho cominciato a fare una serie di domande su come percepiscono altri paesi. Il Nation Brands Index negli anni è diventato un database molto ampio. Sono circa 200 miliardi di dati che tracciano ciò che le persone comuni pensano degli altri paesi e perché. Perché l’ho fatto?
Perché i governi di cui sono consulente sono molto ansiosi per come vengono considerati. Sanno, in parte, perché li ho incoraggiati a realizzarlo, che i paesi dipendono tantissimo dalla loro reputazione per poter sopravvivere e prosperare nel mondo. Se un paese ha una immagine positiva, come la Germania o la Svezia o la Svizzera, tutto è facile e tutto è economico. Arrivano più turisti, più investitori. Si vendono i prodotti a prezzi più alti. D’altro canto, per un paese con una immagine molto debole o molto negativa, tutto è difficile e tutto è costoso. Quindi i governi hanno disperatamente a cuore l’immagine del loro paese, perché fa la differenza su quanti soldi riescono a fare, ed è quello che hanno promesso di fare alla popolazione.
Un paio di anni fa, ho pensato di prendere una pausa e parlare a questo gigantesco database, e chiedergli: perché la gente preferisce un paese ad un altro? La risposta che mi ha dato il database mi ha completamente sbalordito. Era 6,8. Non ho tempo per spiegare nei dettagli. In sostanza quello che mi ha detto è che il tipo di paese che preferiamo sono i bravi paesi. Non ammiriamo i paesi soprattutto perché sono ricchi, perché sono potenti, perché hanno successo, perché sono moderni, perché sono tecnologicamente avanzati. Ammiriamo soprattutto i paesi che sono bravi. Cosa intendo per bravi?
Intendiamo i paesi che sembrano contribuire in qualche modo al mondo in cui viviamo, paesi che rendono il mondo più sicuro o migliore o più ricco o più giusto. Questi sono i paesi che ci piacciono. È una scoperta di significativa importanza — vedete dove voglio arrivare — perché quadra il cerchio. Ora posso dire, e lo faccio spesso, a qualunque governo: per fare bene, bisogna essere bravi. Se volete vendere più prodotti, se volete ottenere più investimenti, se volete diventare più competitivi, dovete cominciare a comportarvi bene, perché in questo modo la gente vi rispetterà e lavorerà con voi. Di conseguenza, più collaborate, più diventate competitivi.
È una scoperta abbastanza importante, e non appena l’ho scoperto, ho sentito arrivare un altro indice. Giuro che invecchiando, le mie idee diventano più semplici e sempre più infantili. Questa si chiama Good Country Index, e fa esattamente quello che dice. Misura, o almeno cerca di misurare, esattamente quanto ogni paese sulla Terra contribuisce non alla sua popolazione ma al resto dell’umanità. Stranamente, nessuno ha mai pensato di misurarlo prima. Il mio collega Dr. Robert Govers ed io abbiamo passato la parte migliore di questi ultimi due anni, con l’aiuto di un gran numero di persone molto serie e intelligenti, a mettere insieme tutti i dati affidabili del mondo che siamo riusciti a trovare su quali paesi danno qualcosa al mondo.
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State aspettando che vi dica chi c’è in cima. Ve lo dirò, ma prima di tutto voglio dirvi quello che intendo precisamente quando dico bravo paese. Non intendo moralmente bravo. Quando dico quel paese X è il più bravo paese sulla Terra, e intendo il più bravo, non intendo il migliore. Migliore è una cosa diversa. Quando si parla di bravo paese, si può essere bravi, più bravi o i più bravi. Non è la stessa cosa di buono, migliore e il migliore. È semplicemente un paese che dà di più all’umanità di qualunque altro paese. Non parlo di come si comportano in casa propria perché quello viene misurato altrove. Vince l’Irlanda. Secondo questi dati, nessun paese sulla Terra, per abitante, per dollaro di PIL, contribuisce di più al mondo in cui viviamo dell’Irlanda. Cosa significa?
Significa che quando andremo a dormire stasera, per tutti noi negli ultimi 15 secondi, prima di addormentarci, il nostro ultimo pensiero dovrebbe essere, accidenti, sono contento che l’Irlanda esista. E questo, nel profondo di qualunque grave recessione economica, credo che ci sia una lezione molto importante: riuscire a ricordare i vostri doveri internazionali mentre cercate di ricostruire la vostra economia, è veramente importante. La Finlandia si classifica più o meno allo stesso livello. L’unico motivo per cui è dopo l’Irlanda è che il suo punteggio più basso è più basso di quello dell’Irlanda.
L’altra cosa che noterete dei primi 10 è che sono tutti, a parte la Nuova Zelanda, paesi dell’Europa Occidentale. Sono anche tutti ricchi. Questo mi ha demoralizzato, perché una delle cose che non volevo scoprire con questo indice è che è puramente territorio dei paese ricchi aiutare i paesi poveri. Non si tratta di questo. Certo, se scendete nella lista, non ho le slide qui, ma vedrete una cosa che invece mi ha reso felice: che il Kenya è nei primi 30, e questo dimostra una cosa molto importante. Non si tratta di soldi. Si tratta di atteggiamento. Si tratta di cultura. Si tratta di un governo e persone che hanno a cuore il resto del mondo e hanno l’immaginazione e il coraggio di guardare all’esterno invece di pensare egoisticamente.
Scorrerò le altre slide in modo che vediate i paesi più in fondo. C’è la Germania al 13esimo, l’Italia è 16esima, gli Stati Uniti sono al 21esimo, il Messico è al 66esimo. Poi abbiamo alcuni dei grandi paesi in via di sviluppo, come la Russia al 95esimo, la Cina al 107esimo. Paesi come la Cina, la Russia e l’India, che è nella stessa zona della classifica, in qualche modo non sorprendono. Hanno passato tanto tempo negli ultimi decenni a costruire la propria economia, a costruire la propria società e il sistema di governo, ma si spera che la seconda fase della loro crescita sarà in qualche modo più rivolta all’esterno di quanto non sia stata finora la prima fase.
Poi potete suddividere ogni paese in termini di tipo di dati che hanno contribuito. Vi permette di farlo. Da mezzanotte sarà su goodcountry.org, e potete guardare il paese. Potete analizzare i dati individuali.
Questo è il Good Country Index. A cosa serve? Serve perché voglio cercare di introdurre questa parola, o reintrodurre questa parola, nel discorso. Ne ho abbastanza di paesi in competizione. Ne ho abbastanza di paesi floridi, sani, a forte crescita. Ne ho abbastanza di paesi felici perché alla fine è sempre egoistico. Si tratta comunque di noi, e se continuiamo a pensare a noi stessi, siamo veramente nei guai. Credo che sappiamo tutti cosa vogliamo sentire. Vogliamo sentire di bravi paesi, quindi voglio chiedervi un favore. Non chiedo molto. Dovrebbe essere facile da fare e forse lo troverete anche divertente e di aiuto, ed è semplicemente di cominciare a usare la parola “bravo” in questo contesto.
Quando pensate al vostro paese, quando pensate al paese degli altri, quando pensate alle aziende, quando parlate del mondo in cui viviamo oggi, cominciate a usare la parola nel modo in cui ne ho parlato stasera. Non bravo, l’opposto di cattivo, perché è una discussione che non finisce mai. Bravo, l’opposto di egoista, e bravo è un paese che pensa a tutti noi. È questo che vorrei che faceste e vorrei che lo utilizzaste come bastone con cui colpire i vostri politici.
Quando li eleggete, quando li rieleggete, quando votate per loro, quando ascoltate quello che hanno da offrire, usate la parola, “bravo”, e chiedetevi, “È questo che farebbe un bravo paese?” E se la risposta è no, siate sospettosi. Chiedetevi: è così che si comporta il mio paese? Voglio provenire da un paese in cui il governo, a nome mio, fa cose del genere? Oppure, al contrario, preferisco l’idea di girare il mondo a testa alta pensando, “Sì, sono fiero di provenire da un bravo paese?” E tutti vi accoglieranno bene. Tutti negli ultimi 15 secondi prima di addormentarsi diranno, “Dio, sono contento che quel paese esista.”
Infine, credo, che sia quello che porterà il cambiamento. Quella parola, “bravo”, il numero 6,8 e la scoperta che ci sta dietro mi ha cambiato la vita. Credo che possa cambiarvi la vita e credo che possiamo usarlo per cambiare il modo di comportarsi dei nostri politici, e nel fare questo, possiamo cambiare il mondo. Ho cominciato a pensarla diversamente sul mio paese da quando penso a queste cose. Pensavo di voler vivere in un paese ricco, e poi ho cominciato a pensare di voler vivere in un paese felice, ma ho iniziato a rendermi conto, che non è sufficiente. Non voglio vivere in un paese ricco. Non voglio vivere in un paese a rapida crescita o in un paese competitivo. Voglio vivere in un bravo paese, e quindi, spero tanto che lo vogliate anche voi. Grazie
]]>Paolo Mieli, noto storico e giornalista. e Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, incontrano gli studenti.
Rispondendo alle loro domande, i due pongono in rilievo alcuni argomenti.
Tra questi, il successo della globalizzazione, ed il benessere che ne deriva.
Sottolineano anche come sia indispensabile una corretta educazione finanziaria per le nuove generazioni.
Infini pongono in evidenza come a maggior rendimento corrisponda sempre un maggior rischio.
]]>L’analisi poi si allarga al perché la globalizzazione così com’è oggi non funziona, perché ha portato al mondo in cui viviamo oggi e come è possibile migliorarne il modello, per il bene di tutti.
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